Una dipendente dell’Università del Galles ha citato in giudizio, con successo, il governo Britannico presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La causa, un controllo svolto ai suoi danni nel periodo in cui la donna prestava la sua collaborazione all’interno dell’ateneo gallese.
Secondo la denuncia, la casella e-mail, il telefono, internet e il fax venivano controllati dal Preside del College. Il dirigente, infatti, credeva che la donna usasse troppo spesso i mezzi dell’università per uso personale. Ed ha cominiciato a cercare le prove della sua attività.
Dopo aver scoperto le violazioni, la donna ha iniziato una battaglia legale contro il preside. Già a partire dal 1999, sostiene l’impiegata, era iniziata una campagna di discriminazione nei suoi confronti.
Il governo inglese, privo in quegli anni di una normativa efficace, ha sostenuto la legittimità della condotta del preside poiché le conversazioni non erano state intercettate: le uniche informazioni in posseso del college erano i numeri di telefono, gli indirizzi email e web, ma non i contenuti.
Il tribunale europeo ha espresso il suo disaccordo nei confronti di questa interpretazione e, secondo una sentenza priva di precedenti, «le telefonate dai luoghi di lavoro sono contemplate dal principio di “vita privata“, in conformità agli scopi dell’articolo 8.»
Poiché la donna non era stata avvertita della possibilità di essere controllata, ha avuto «una ragionevole aspettativa quanto alla segretezza delle telefonate fatto dal suo luogo di lavoro». Stessa protezione per l’uso di Internet.
Sebbene limitato, la sentenza costituisce comunque un precedente. Questo dispositivo, infatti, suggerisce a tutti i datori di lavoro europei di chiarire il livello di sorveglianza che intendono esercitare. Ma non serve a stabilire delle precise regole generali, a livello comunitario, sul controllo dei dipendenti.