Privatizzazioni: è la parola d’ordine del Piano di dismissioni del patrimonio pubblico del neo ministro dell’Economia, Vittorio Grilli. Un piano da 15-20 miliardi l’anno – ovvero l’1% del PIL – per ridurre il debito pubblico del 20% in 5 anni.
Secondo Grilli, come riferito al Corsera, l’attuale debito potrebbe così scendere dal 123 al 103% del PIL e contenere anche i potenziali effetti della recente bocciatura di Moody’s (da A3 a Baa2) e dello spread di nuovo in salita alla vigilia di un mese, agosto, tradizionalmente speculativo sui mercati anche in considerazione dei bassi volumi.
Ma per capire se e quanto l’annunciata intenzione di passare a una nuova fase di privatizzazioni in Italia possa essere incisiva bisogna aspettare di conoscere qualche dettaglio in più del Piano, nel quale rientreranno immobili e società partecipate dagli enti locali, come le utilities.
Il vero problema consiste nel condurre le operazioni valorizzando al meglio i beni dello Stato (lo stesso Grilli ha citato l’insuccesso delle operazioni di cartolarizzazione Scip 1 e Scip 2).
Non mancano i dubbi sulla sostenibilità delle stime di Grilli: per ridurre il debito in 5 anni il Ministero assume un avanzo primario (lordo) del 5%, una crescita nominale (cioè anch’essa lorda) del 3%, che tolta l’inflazione significa 1%.
Peccato che l’Italia abbia dimostrato di soffrire con persistenza di bassa crescita: è questo l’elemento che preoccupa gli osservatori internazionali. L’ultimo report del FMI pone l’accento sulla necessità di proseguire con le riforme strutturali per farvi fronte. Oltretutto, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso già da aprile le previsioni di crescita in Europa, decretando per l’Italia un tasso pari a -1,9% sul PIL nel 2012.
Ancora di più dopo il downgrade (legato al rischio contagio), i cui effetti “tecnici” possono manifestarsi sul mercato dei titoli di Stato e sul credito bancario con una nuova stretta.
E qui entrano in gioco le dinamiche di un’Europa impegnata in un cammino a tappe forzate verso misure che riescano a creare un’inversione di tendenza sul fronte della crisi del debito. La “paura” che la Germania di Angela Merkel decida di non ratificare lo scudo anti-spread – vero argine alla speculazione (dando la possibilità al Fondo Salva Stati di intervenire sul mercato secondario, acquistando titoli di stato, attraverso la BCE) – è concreta.
La data fondamentale è quella del 20 luglio, quando l’Eurogruppo è chiamato a rendere operative le misure decise dal vertice di giugno: scudo anti spread e salvataggio della banche spagnole. Anche quest’ultima è una misura importante: protegge il sistema bancario spagnolo e crea un precedente attraverso il quale l’Europa spezza il circolo vizioso crisi del debito/crisi del credito.
La cancelliera tedesca Merkel insiste sul rigore – “nessuna solidarietà senza controlli” – ma in Europa c’è chi spinge anche sulla riforma della BCE – come il presidente della Consob, Giuseppe Vegas – per conferirle poteri simili a quelli banche centrali inglese, giapponese o americana in difesa degli attacchi speculativi.