L’intento dei contratti a tempo determinato dovrebbe essere quello di facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani e il reintegro di chi ha perso il lavoro; spesso, invece, mettono il lavoratore precario di fronte a una serie di problematiche che ne indeboliscono la posizione.
Su questi presupposti ha tentato di agire la Riforma del Lavoro Fornero – che ne ha scoraggiato la stipula in favore di quelli a tempo indeterminato – ma con risultati solo parzialmente risultati efficaci, in quanto la precarietà nel 2012 non è affatto diminuita.
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Per tutelare i lavoratori con contratto a termine, il legislatore aveva già modificato l’art. 5, co. 1 e 2 della legge 604/1966 attraverso il Collegato Lavoro (art. 32 della legge 183/2010), applicato a tutte le tipologie di contratto a tempo determinato in corso, ai contratti dello stesso tipo già cessati con decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge e ai giudizi in cui il giudice abbia facoltà di fissare un termine per integrare la domanda e le relative eccezioni, ai fini di determinare l’indennità da assegnare.
Secondo il Collegato, nel caso in cui il contratto a termine veniva convertito in uno a tempo indeterminato per illegittima apposizione del termine, il datore di lavoro era tenuto a risarcire il danno al lavoratore, attraverso il pagamento di una indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità, tenendo conto dell’ultima retribuzione del dipendente.
Ricordiamo tuttavia che dal 2012 sono cambiate le modalità previste dal Collegato Lavoro per presentare ricorso in caso di interruzione dei contratti di lavoro a tempo determinato. I dipendenti a tempo determinato hanno 180 giorni per impugnare un licenziamento che reputano illegittimo, come stabilito dal comma 38 dell’articolo 1 della Riforma Fornero, che modifica l’articolo 6, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604.
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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2112 del 28 gennaio 2011, aveva tra l’altro già sollevato l’illegittimità costituzionale della norma analizzata, sottolineando che la misura del risarcimento del danno integrale fosse irragionevolmente riduttiva. La quantificazione del danno, calcolato per difetto rispetto ai patimenti subiti dal lavoratore, finiva per non rispettare gli artt. 3, 4, 24, 101, 102 e 111 della Costituzione, consentendo al datore di lavoro di reiterare il proprio inadempimento sfruttando la durata temporale del giudizio o venendo meno all’espletamento della condanna comminata, a sua volta mancante di una forma specifica di realizzazione.
Le motivazioni espresse dalla Corte di Cassazione erano state ribaltate dalla Corte Costituzionale, che con sentenza n. 303 del 9 novembre 2011 ne aveva bocciato le argomentazioni. Questa aveva inoltre chiarito i limiti e l’ambito di applicazione della norma, sottolineando che l’indennità prevista nel Collegato non faceva altro che integrare la garanzia della conversione del contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, puntualizzando che la quantificazione del danno riguarda solo il periodo intermedio e quindi non va sottostimata.
Il datore di lavoro sarebbe stato poi obbligato a reintegrare il lavoratore e a pagargli le retribuzioni dovute. Come si legge nel testo della sentenza della Consulta: “Il Collegato Lavoro realizza un perfetto bilanciamento, garantendo al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonché una indennità che gli è dovuta sempre e comunque, e al datore di lavoro assicura la conoscenza preventiva, e massima, del risarcimento del danno che, in caso di soccombenza, sarebbe tenuto a liquidare al lavoratore”.
Allo stesso modo la Corte Costituzionale ha respinto le motivazioni addotte dalla Corte di Cassazione in tema di lunghezza del giudizio definendole inconvenienti solo eventuali, non dipendenti da una sperequazione voluta dalla legge ma da situazioni occasionali quando non patologiche del nostro sistema giudiziario.