Gli stipendi italiani sono fra i più bassi d’Europa, circa la metà rispetto ai compensi medi tedeschi. Lo rilevano i dati Eurostat, i cui numeri «rattristano profondamente» il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, secondo cui «bisogna scardinare questa situazione».
E subito i sindacati rilanciano: il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, sfida il Governo ad aprire una discussione sull’eccessivo peso del Fisco sul lavoro dipendente, gravato da oltre il 50% di tasse.
Nei prossimi giorni, comunque, si terrà un nuovo appuntamento del tavolo fra parti sociali, imprese ed esecutivo sulla riforma del Lavoro, e in agenda non mancherà il tema dei contratti.
Stipendi medi
I dati Eurostat, si riferiscono agli stipendi medi lordi annui nelle aziende europee con almeno dieci dipendenti. L’Italia è al dodicesimo posto, con un salario medio di 23mila406 euro, davanti solo a Portogallo, Slovenia, Malta e Slovacchia. Va precisato che i dati si riferiscono in media agli stipendi 2009, e quindi ad esempio non incamerano una serie di misure recenti, come i tagli previsti dai piani di austerity della Grecia.
Comunque sia, in base alle cifre diffuse da Eurostat, lo stipendio medio italiano è meno della metà rispetto a quello del Lussemburgo, al top della classifica con 48mila 914 euro. Seguono l’Olanda, 44mila 412 euro, e la Germania, 41mila 100, con compensi medi che come si vede sono circa doppio rispetto agli italiani.
Intorno ai 40mila euro anche le buste paga in Belgio, Irlanda e Finlandia, mentre in Francia si scende intorno a 33mila 500 euro, valore molto vicino a quello austriaco. Gli altri Paesi sono tutti sotto i 30mila euro, gli ultimi quattro, ovvero gli unici che seguono l’Italia, sono sotto quota 20mila (in Slovacchia, fanalino di coda, il compenso medio è intorno ai 10mila euro).
Non solo: l’Italia è anche fra i Paesi che vedono gli stipendi crescere di meno: +3,3% dal 2005 al 2009, contro il 16,1% del Lussemburgo, il 14,7% dell’Olanda, il 6,2% della Germania, o valori superiori al 20% nei Paesi dove i salari sono più bassi, come Spagna e Portogallo.
C’è anche un dato positivo, e riguarda il gender gap: in tutti i Paesi c’è una forbice fra stipendi di uomini e donne, ma questa in Italia è nettamente più bassa della media europea: al 5%, contro una media dell’Europa a 27 superiore al 17%. Ma anche in materia in gender gap abbiamo invece dati negativi sul fronte del numero di donne che lavorano e di ricorso a contratti part time.
Costo del lavoro dipendente
Dunque, per riassumere, in Italia gli stipendi sono bassi (secondo l’Adoc, associazione di consumatori, circa l’80% del reddito se ne va per le spese giornaliere) e crescono poco. Non solo: la differenza fra lordo e netto è più pesante che altrove, a causa di un’alta imposizione fiscale sul lavoro dipendente. Per cui questi minori stipendi non si traducono in un minor costo per le imprese, che anzi pagano caro il lavoro.
Cisl e Uil si soffermano su questo punto, puntando il dito sull’alto costo del lavoro. «Ci sono troppe tasse sul lavoro dipendente, siamo oltre il 50% e questo falcidia in modo inesorabile i salari« sottolinea il segretario della Cisl Raffele Bonanni, che chiede al Governo una discussione «chiara, forte e trasparente» su Fisco e salari. Sulla stessa linea Luigi Angeletti, numero uno della Uil.
Il ministro Fornero ritiene che si debba «scardinare con le nostre riforme questa situazione» magari avendo «il coraggio di fare cambiamenti profondi» creando «un sistema più efficiente, più produttività per alzare gli stipendi». Il ministro insiste su uno dei punti al centro del dibattito sulla riforma del Lavoro, ovvero compensi più alti per chi accetta forme di lavoro flessibile.
E proprio i contratti saranno al centro dell’agenda del prossimo round del negoziato al ministero. Sul tavolo, lo sfoltimento delle tipologie contrattuali e la possibilità di rendere più cari i contratti a tempo determinato e altre forme di contratti atipici. Su questo, si registano posizioni diverse anche fra gli imprenditori: Rete Imprese Italia è per esempio contraria a penalizzare i contratti a tempo determinato e a chiamata.