Boom di fallimenti aziendali: le società a rischio insolvenza

di Barbara Weisz

Pubblicato 23 Gennaio 2012
Aggiornato 8 Settembre 2015 10:14

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Procedure fallimentari in aumento tra le aziende italiane colpite dalla crisi, Pmi in testa: le società a rischio insolvenza e le cause di default, ritardo nei pagamenti in primis.

Il 2011 è stato un anno di seria crisi economica, anzi serissima, per le Pmi: il numero di fallimenti è stato il più alto dal 2006, anno in cui è stata riformata la disciplina fallimentare.

E analizzando i dati in relazione alle dimensioni di impresa, si vede come le imprese di minore dimensione siano state in assoluto fra le più colpite dai default.

Lo rileva l’analisi del Cerved, secondo cui nel dettaglio il 2011 ha visto il fallimento di oltre 12mila aziende, con un incremento rispetto al 2010 pari al 7,4%. E c’è poi un’altra analisi, questa volta della Cgia di Mestre, secondo cui il motivo numero uno che spinge gli imprenditori a portare i libri in tribunale è rappresentato dai ritardi nei pagamenti dalla PA.

Fallimenti in Italia

Iniziamo con i dati del Cerved. L’ondata di fallimenti del 2011 è proseguita inarrestabile fino all’ultimo trimestre dell’anno, che ha visto l’apertura di 3500 procedure fallimentari, l’1,9% in più del periodo luglio-settembre. Da 15 trimestri consecutivi (quasi quattro anni) il numero di fallimenti in Italia supera quello dell’analogo periodo dell’anno precedente. E ancora: nel triennio fra il 2009 e il 2011 sono fallite 33mila imprese.

Gli oltre 12mila fallimenti del 2011 seguono gli 11mila abbondanti del 2010, anno che già aveva fatto segnare un +19,8% rispetto al 2009. Insomma, i dati parlano chiaro: gli ultimi anni hanno visto una notevole accelerazione delle procedure di default.

Tipologie di aziende

A essere maggiormente penalizzate sono le società di capitale, con i fallimenti aumentati dell’8,6%, seguite da società di persone e altre forme giuridiche, entrambe a +4,7%. Guardando agli “insolvency ratio” o IR, che misurano i fallimenti ogni 10mila imprese attive, e dunque rappresentano un indice della frequenza dei fallimenti, il divario fra società di capitale e tutte le altre forme societarie è ancor più evidente: l’indice è a 81,5 punti per le società di capitale, mentre scende drasticamente a 14,5 per le società di persone e a 5,2 per le altre forme giuridiche.

Restando fra le società di capitale, a segnare il maggior numero di fallimenti, nel 2011 rispetto al 2010, escludendo le microimprese che non presentano un bilancio, sono le Pmi con un attivo compreso fra i 2 e i 10 milioni di euro, le quali presentano un insolvency ratio pari a 132,9 punti, con un incremento del 3,3%. In termini relativi, sono state più colpite invece le imprese con un attivo compreso fra i 10 e i 50 milioni (e qui siamo un po’ al limite fra Pmi e grandi imprese), con un incremento del 6,6% ma con un insolvency ratio più basso, pari a 127,2.

Per quanto riguarda le piccole imprese sotto i due milioni di attivo, la frequenza dei fallimenti è aumentata rispetto al 2010, +2,5%, ma l’insolvency ratio notevolmente più basso rispetto ai due casi precedenti, pari a 71,7.

Nelle grandi aziende con più di 50 milioni di attivo invece l’insolvency ratio scende a 48,3, e i fallimenti sono addirittura stati meno frequenti che nel 2010, -5,4%.

Analisi settoriale

Quanto ai fallimenti divisi per settori, da una parte si evidenzia come il 2011 sia stato particolarmente duro per i servizi, con i default aumentati del 10% rispetto al 2010, dall’altra si trova anche una notizia positiva che riguarda invece l’industria: è l’unico settore in cui c’è stata un’inversione di tendenza, con una riduzione dei default del 6,3% (fra l’altro, dopo due anni particolarmente duri). Ma attenzione: in termini assoluti, l’industria resta il settore con il maggior numero di fallimenti. L’IR è pari a 39,8 (comunque in calo rispetto al 42,5 del 2010), contro il 31 delle costruzioni (da 29,2), il 18,7 dei servizi (da 17,4), l’11,2 degli altri settori (da 8,7%).

All’interno dell’industria, i microsettori che evidenziano il più evidente miglioramento degli IR sono la meccanica, la chimica, il sistema moda, la siderurgia. Viceversa, peggiorano il sistema casa, auto e mezzi di trasporto, la produzione di beni di largo consumo, l’hi-tech. La produzione di beni intermedi registra un miglioramento sul 2010 ma resta il settore con l’IR più alto, a 67,6.

Analisi Territoriale

Infine, la suddivisione territoriale: il boom di fallimenti 2011 non ha interessato il Nord-Est, che anzi segna un -0,3% rispetto al 2010. Questo, grazie alla diminuzione dei default in Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia, controbilanciati dall’aumento in Emilia Romagna. L’aumento più vistoso delle procedure di fallimento ha riguardato il Sud e le isole, +11,2%, seguite dal Centro, +9,5%, e dal Nord Ovest, +8,4%. Gli indici di insolvenza restano comunque più alti al Nord Ovest, seguito dal Centro, dal Nord Est e dal Sud e isole.

Le Regioni che hanno registrato un calo del numero di imprenditori che hanno portato i libri in tribunale sono la Basilicata, le Marche, il Trentino Alto Adige, il Veneto, il Friuli e la Sicilia. Quelle in cui, viceversa, i default sono aumenti di più sono, nell’ordine, il Molise, la Campania, il Lazio, la Val d’Aosta e la Lombardia.

Infine, il record negativo (in termini di IR) va alla provincia di Milano, seguita da quelle di Prato, Lodi, Novara, Lucca, Bergamo, Pordenone, Treviso, Ancona e Varese. Considerando solo le province ad alto tasso di industrie, la top ten negativa vede in testa sempre Milano, seguita da Napoli, Brescia, Firenze, Roma, Padova, Torino, Verona, Bari e Salerno.

Cause di fallimento

È interessante andare a vedere quali sono i principali motivi che mettono in crisi le imprese. Al primo posto tra i motivi che spingono gli imprenditori a portare i libri in tribunale è rappresentato dai ritardi nei pagamenti, a partire ritardi dei pagamenti dalla PA. Qui l’indagine è stata effettuata dalla Cgia di Mestre: l’associazione conta 11mila615 imprese fallite nel 2011 (un dato un pò inferiore a quello del Cerved), delle quali circa 3600, ovvero il 31%, sono state messe in ginocchio dai ritardi nei pagamenti.

Si tratta di una percentuale ben più alta di quella europea (il 25% secondo Intrum Justitia). Fra l’altro, il trend dei ritardi dei pagamenti (qui l’indagine non riguarda solo il caso in cui il committente sia la pubblica amministrazione, ma è generale) è in peggioramento da quattro anni: nel 2008 la media era 27 giorni, nel 2011 è salita a 53 giorni.

Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre, rinnova la richiesta al Governo di recepire «quanto prima la Direttiva europea contro il ritardo nei pagamenti», anche in considerazione del fatto che «la mancanza di liquidità sta facendo crescere il numero degli “sfiduciati”, ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso, nonostante i grossi problemi che si sono accumulati in questi ultimi anni, di non ricorrere all’aiuto di una banca». Per non parlare del rischio che le aziende si rivolgano «a forme illegali di accesso al  credito, con il pericolo che ciò dia luogo ad un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico».

Forme societarie

Infine, può essere interessante vedere come impatta la crisi sulla forma giuridica delle aziende che invece sono ancora sul mercato. Secondo la Camera di Commercio di Milano, cresce soprattutto il numero delle società di capitale, mentre soffrono molto di più le società di persone. Queste ultime nel 2011 hanno segnato una flessione dello 0,6%, e nell’arco dei cinque anni dal 2007 al 2011 un calo del 3,4%. E fra le società di capitale, in tutto nel 2011 aumentate del 2,4% sul 2010, il segno più è interamente attribuibile alle S.R.L. che con un incremento del 2,6% bilanciano le performance negative di società per azioni e società in accomandita per azioni, -2,3%. Infine, tendenza positiva per le cooperative, +0,8%.