I fondi pensione italiani continuano a presentare risultati tutto sommato deludenti in termini di adesioni, per non parlare dei rendimenti. Eppure il 2012 promette di essere un anno interessante per chi questi strumenti finanziari li gestisce: scadono infatti 65 mandati di gestione di fondi negoziali su 141, per un volume complessivo intorno ai 10 miliardi di euro.
Dunque, da una parte c’è un’occasione per il mondo finanziario nei confronti del mondo della previdenza complementare, dall’altra gli stessi gestori continuano a dover fare i conti con lo scarso entusiasmo che gli Italiani mostrano verso l’investimento in un fondo pensione e con la difficoltà, tutta tecnica, di gestire (e quindi di rendere appetibili) questi strumenti in un momento molto turbolento per il mercato.
Partiamo dai dati: in Italia il settore della previdenza complementare è indietro rispetto all’Europa e al resto del mondo. Secondo le cifre di Bankitalia sul 2010, i fondi pensione rappresentano mediamente l’1% degli investimenti finanziari degli Italiani, contro il 13% della Germania o il 27% degli Stati Uniti.
Il problema è che quello che dovrebbe essere il secondo pilatro – una sorta di assicurazione bis sul proprio potere d’acquisto negli anni della pensione – continua a essere un investimento poco conveniente.
Secondo gli ultimi dati Covip (la commissione di vigilanza sui fondi pensione), relativi al settembre 2011, i primi nove mesi dell’anno appena concluso hanno visto in calo tutti i rendimenti: i fondi pensione negoziali hanno perso l’1,6%, quelli aperti il 5%.
Come dire, tenere i soldi sotto il materasso sarebbe stato molto più conveniente, visto che in quel caso si perde solo l’inflazione.
Sul fronte delle adesioni le cose sono andate un pochino meglio: i fondi chiusi hanno registrano una flessione anche di adesioni, scese nei tre trimestri dello 0,5%, mentre hanno guadagnato il 2,5% di clienti i fondi aperti e addirittura il 16% le pensioni integrative private (Pip). Queste ultime, però, sul fronte dei rendimenti sono state quelle che hanno registrato, in media, la performance di gran lunga peggiore, con un deprezzamento del 9%.
Insomma, il settore continua a soffrire, non attrae molti investimenti e soprattutto non riesce a produrre guadagni. Del resto, chi dopo la riforma del 2007, ha scelto di lasciare il Tfr in azienda invece che destinarlo a un fondo pensione, dal punto di vista del rendimento ha fatto una scelta corretta: secondo le elaborazione della Cgia di Mestre relative al 2010, chi ha lasciato il Tfr in azienda ha guadagnato circa il 4,7%, chi lo ha investito in un fondo negoziale ha avuto un rendimento limitato all’1,7%, chi ha scelto un fondo aperto ha addirittura perso.
Come detto, il 2012 porta alcune novità: la prima riguarda appunto l’opportunità per i gestori, i quali però sono alle prese con un momento di mercato molto difficile. La seconda riguarda gli sforzi più volte annunciati dal Governo Monti per promuovere un’educazione finanziaria dei contribuenti: la riforma delle pensioni contenuta nella manovra Monti prevede ad esempio specifici impegni informativi sulla situazione previdenziale obbligatoria (sull’esempio della busta arancione svedese) utile anche a promuovere una maggior sensibilizzazione, ad esempio nei giovani, sul proprio futuro previdenziale e sull’eventualità di ricorrere al famoso secondo pilastro.
Del resto, il sistema previdenziale attuale prevede un notevole squilibrio fra gli assegni che al momento percepiscono i pensionati e quelli che prenderanno le giovani generazioni. La riforma appena varata con il passaggio al contributivo per tutti, porterà presumibilmente a un po’ di riequilibrio ma certo è difficile immaginare che le future pensioni obbligatorie non saranno più basse delle attuali. Comunque, d’ora in poi si tratta di un’informazione che gli istituti previdenziali sono tenuti a fornire.