Il carattere principale dell’obbligazione del professionista consiste nel porre in essere una attività strumentale al perseguimento dell’interesse del creditore – cliente. Rispetto a tale contenuto l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza si è concentrata su quella particolare categoria di obbligazioni che è convenzionalmente definita come “obbligazioni di mezzi” e che si suole contrapporre alla diversa categoria individuata nelle “obbligazioni di risultato“.
Obbligazioni di mezzo
La differenza sostanziale tra le due tipologie di obbligazioni in oggetto va inquadrata nel fatto che quando si chiede ad un professionista di prestare le proprie capacità professionali per la tutela di un interesse, non si può pretendere, a differenza di quanto accade nelle obbligazioni di risultato, che questi raggiunga il risultato e quindi soddisfi le speranze del cliente, ma si potrà solo pretendere che egli adotti quella diligenza che la fattispecie richiede usando tutto il suo bagaglio di esperienze e cognizioni, onde tentare di risolvere al meglio il problema; pertanto, la prestazione del professionista rientra nell’ambito dell’obbligazione di mezzi. Infatti l’opera prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali attraverso il mezzo del sapere, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo, essendo questo in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. La Corte di Cassazione (Cass. Civile, sez. II, 08.08.2000, n. 10431) ha sottolineato che:
«le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzo e non di risultato, in quanto il professionista assumendo l’incarico si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo».
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Ne deriva che l’inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale ed in particolare al dovere di diligenza per il quale trova applicazione, in luogo del criterio tradizionale della diligenza del “buon padre di famiglia”, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176 secondo comma c.c., il quale deve essere commisurato alla natura dell’attività esercitata.
La diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, ovvero la diligenza posta nell’esercizio della propria attività da un professionista di preparazione professionale e di attenzione medie. Questo, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità del professionista è attenuta configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave.
Colpa grave
La nozione di colpa grave in campo professionale comprende:
- gli errori che non sono scusabili per la loro grossolanità;
- le ignoranze incompatibili con il grado di addestramento o di preparazione che una data professione richiede oche la reputazione del professionista da motivo di ritenere esistenti;
- la temerarietà sperimentale ed ogni altra imprudenza che dimostri superficialità e disinteresse per i beni primari che il cliente affida alle cure del prestatore d’opera intellettuale.
Compenso professionista
Conseguenza del fatto che il professionista adempie la propria obbligazione effettuando tutto il possibile per ottenere un certo risultato, anche se poi questo non viene raggiunto, è che il corrispettivo pattuito andrà comunque corrisposto (ad esempio l’avvocato dovrà essere pagato anche se la causa è stata persa o il medico anche se il paziente non guarisce).
Colpa professionale
Questo vale sino a quando non si prova una responsabilità del professionista nell’adempimento del proprio obbligo di mezzi, cioè si dimostra che egli non ha fatto tutto il possibile (tenendo presente lo stato della migliore scienza o esperienza) per raggiungere il risultato.
La colpa professionale (negligenza, imperizia o imprudenza) deve essere pertanto valutata con riferimento all’impegno che il professionista “modello” avrebbe posto in quel particolare caso e quello che è stato utilizzato nel caso concreto da quel professionista.
La responsabilità del prestatore d’opera intellettuale è regolata in generale dell’art. 1176 c.c. che nel secondo comma fa obbligo al professionista di usare la diligenza media, da valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Una sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che laddove il libero professionista, sia esso ingegnere, architetto o geometra, abbia esercitato il proprio lavoro in maniera non diligente ed oculata, non ha diritto ad ottenere il compenso. A questo riguardo i giudici della Cassazione utilizzano il termine “ordinaria diligenza del buon padre di famiglia“.
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Questo significa che nell’esercitare la propria attività il professionista deve applicare come minimo la normale diligenza che ciascuno si aspetta nel momento in cui si rivolge ad un professionista. Esiste infatti una valutazione media applicabile che consente di accertare se il professionista ha lavorato bene o male, ossia se ha usato “l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia” o meno. Per cui tutte le volte in cui l’opera non può essere collaudata per colpa di errori o inadeguatezze imputabili al professionista, questo non ha diritto di ottenere alcun compenso.
È il giudizio sulla diligenza che comporta, quindi, un giudizio sulla responsabilità del professionista, nel senso che si deve fare riferimento, per valutare la diligenza impiegata, al tipo di attività che il professionista è chiamato a compiere per cui, correlando la norma sopra indicata con quella successiva di cui all’art. 2236 c.c., si ha che la responsabilità del professionista, già limitata nelle prestazioni di difficile esecuzione ai soli casi di dolo o colpa grave, viene limitata anche nei casi rientranti nella normalità dal criterio valutativo della diligenza adoperata, avuto riguardo alla media diligenza cioè alla media capacità professionale, posto che al professionista, che non sia specializzato, non può chiedersi una capacità professionale di natura eccezionale.
Per fare un esempio, qualora un medico sia chiamato ad effettuare un intervento chirurgico di routine, tipo asportazione di un’appendicite o di un’ernia o, per farla più semplice, delle tonsille, la sua responsabilità sarà più ampia rispetto al caso in cui sia chiamato ad un delicato intervento di chirurgia cardiovascolare od addirittura al cervello.
È evidente che se nel corso di un intervento di appendicectomia, qualora al posto della parte infiammata venga asportata una parte sana, indubbia è la responsabilità del chirurgo per il macroscopico errore in relazione ad un normale intervento: i professionisti, pertanto, rispondono anche per colpa lieve quando siano chiamati a risolvere problemi semplici e che rientrano nelle normali capacità di ogni medio professionista.
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Limitazioni alla responsabilità
L’art. 2236 c.c., come già sottolineato, limita la responsabilità del professionista ai casi di dolo o colpa grave
«Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà».
Tale limitazione di responsabilità, che ad una prima analisi potrebbe risultare abusiva, in realtà è perfettamente consequenziale al tipo di attività che il prestatore d’opera intellettuale compie rispetto al prestatore d’opera materiale: il primo, infatti, impiega i mezzi che la sua conoscenza intellettuale gli consente, mentre l’altro deve plasmare una materia.
E allora la differenza di obbligazione che l’uno assume rispetto all’altro, cioè il risultato ed i mezzi, rende comprensibile e condivisibile la limitazione di responsabilità per il professionista ai soli casi di dolo o colpa grave quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà mentre, di fronte ad ipotesi di normale impegno, il professionista risponde secondo i normali principi di responsabilità di cui all’art. 1176 c.c.
La legittimità della limitazione della responsabilità del professionista di cui all’art. 2236 c.c. è stata tra l’altro confermata dalla stessa Corte Costituzionale attraverso la sentenza del 28 novembre 1973, n. 166; è stato rilevato che:
«Lo speciale trattamento giuridico riservato al professionista non è collegato puramente e semplicemente a condizioni personali e sociali, ma ha in sè una sua adeguata ragione di essere», ed «è il riflesso di una normativa dettata di fronte a due opposte esigenze: quella di non modificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso».