Lo scorso giugno è entrata in vigore la nuova Direttiva UE sulla Trasparenza Salariale (EU Pay Transparency Directive 2023/970), a cui gli stati membri dovranno conformarsi entro il 7 giugno 2026.
Pasquale Siciliani, Avvocato DLA Piper, ci aiuta a comprendere meglio come si applicano i nuovi obblighi sulla trasparenza nelle retribuzioni e la parità salariale nel mondo del lavoro.
Direttiva UE sulla parità salariale
La Direttiva UE rafforza il diritto alla parità salariale dei dipendenti attraverso l’efficace strumento degli obblighi di trasparenza e accessibilità delle informazioni salariali.
Nonostante sia un principio già presente nell’art. 157 TFEU, la relazione tecnica che ha accompagnato la proposta della Direttiva evidenzia che il gap retributivo di genere si attesta ancora intorno al 14% nell’Unione Europea, con significative differenze negli stati membri e con ripercussioni a lungo termine sulla qualità della vita delle donne, esponendole a un maggiore rischio di povertà ed accrescendo il divario pensionistico.
Sebbene alcuni stati membri dispongano già di norme in materia di trasparenza retributiva, la frammentazione e il divario tra legislazioni aumentano il rischio che la concorrenza sia falsata da livelli diversi di standard sociali rendendo di fatto necessario un intervento a livello UE.
Gli obblighi di reportistica e la fine del segreto retributivo
In Italia già esiste un obbligo di reportistica sulla situazione di genere introdotto con la legge n. 162 del 2021 per tutte le aziende sopra i 50 dipendenti. L’obbligo, che resta facoltà per le aziende sotto la soglia dei 50 dipendenti, ha cadenza biennale.
La Direttiva prevede, invece, che il report abbia cadenza annuale ma soltanto per Società con più di 250 dipendenti. Per le società sotto questa soglia l’obbligo sarà triennale, mentre per le società con meno di 100 dipendenti la reportistica sarà solo volontaria.
La nostra attuale normativa, in questo caso, è più stringente. Viene posto un obbligo di revisione congiunta con le rappresentanze sindacali aziendali laddove il report evidenzi una differenza del livello retributivo medio tra lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile di almeno il 5% in una qualsiasi categoria e che non sia giustificabile con fattori oggettivi neutri.
Nel report i datori dovranno dare conto di informazioni dettagliate sui livelli retributivi medi di ciascun genere, effettuare un’analisi percentuale di occupazione maschile e femminile all’interno dell’azienda, individuare eventuali differenze e suggerire misure volte ad affrontare e risolvere tali differenze e la loro efficacia.
Inoltre, i dipendenti avranno la possibilità di chiedere informazioni sui livelli salariali in azienda (divisi per genere) e sul loro salario rispetto a dipendenti che svolgono parità di mansioni, nonché la descrizione dei criteri utilizzati per determinare i livelli retributivi e gli avanzamenti di carriera.
Cade anche il segreto retributivo. Dovranno essere vietate clausole contrattuali che impediscano ai lavoratori la divulgazione di informazioni sulla loro retribuzione. Questi nuovi obblighi ridisegneranno l’attuale normativa italiana che non prevede un vero e proprio obbligo di parità salariale per i dipendenti ma soltanto un generico obbligo di non discriminazione.
Novità anche in fase pre-assuntiva
La grande innovazione della Direttiva sulla trasparenza retributiva risiede, tuttavia, nell’introduzione di regole nella fase pre-assuntiva, fino a oggi oggetto di laconiche normative nazionali. Attualmente in nessuno dei principali paesi UE esistono infatti obblighi di trasparenza salariale rispetto alle nuove assunzioni e agli annunci.
Nel nostro paese le tutele giuslavoristiche per i candidati sono concentrate in un’unica norma cardine, l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori la quale vieta al datore di lavoro di fare indagini non pertinenti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Il precetto, caposaldo nel nostro ordinamento, ha anche la finalità di proteggere il candidato da disparità di genere, proibendo al recruiter, ad esempio, di porre domande sullo status familiare della candidata. Tuttavia la norma non impedisce all’azienda di offrire, all’esito del colloquio di lavoro, un pacchetto retributivo tarato discrezionalmente sulle risposte fornite dall’applicante e, dunque, non può essere considerato un
vaccino antidiscriminazione, e non solo di genere.
La Direttiva segue il solco già tracciato dalla Direttiva EU 2019/1152 sulle Condizioni di Lavoro Trasparenti e Prevedibili, la quale aveva introdotto rigidi obblighi informativi ai lavoratori neo-assunti, ma nulla ancora per i candidati.
Con la nuova Direttiva i candidati avranno diritto di ricevere informazioni sul livello retributivo iniziale o sulla relativa fascia da attribuire alla posizione in questione, sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo di genere. Queste informazioni potranno essere fornite direttamente nell’annuncio (che dovrà essere rigorosamente predisposto con un linguaggio neutro) al quale i candidati hanno risposto, ovvero verranno fornite dal datore di lavoro in sede di colloquio come prima cosa senza la necessità che siano i candidati a doverle richiedere.
Inoltre, onde evitare di approfittarsi di situazioni svantaggiate e dare a ognuno le medesime opportunità, viene posto il divieto di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite nei precedenti rapporti di lavoro.
Agevolazioni processuali
Significative sono altresì le misure di tutela introdotte dalla Direttiva per stimolare i dipendenti a denunciare eventuali condotte discriminatorie. In primo luogo vi è un trasferimento dell’onere probatorio in capo al datore di lavoro che non ha rispetto gli obblighi di trasparenza di dimostrare che la sua condotta non ha rappresentato discriminazioni dirette o indirette.
Anche l’onere probatorio viene alleggerito con l’introduzione della possibilità per gli stati di introdurre norme probatorie più favorevoli alla parte ricorrente che denunci tali comportamenti, ad esclusione ovviamente dei procedimenti penali.
La Direttiva interviene anche sulla prescrizione, stabilendo che i termini inizino a decorrere soltanto quando sia cessata la violazione del principio della parità retributiva di genere per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore o la violazione di altri obblighi della Direttiva, conoscibili al ricorrente anche attraverso ragionevoli presunzioni. La prescrizione per tali azioni dovrà essere di almeno tre anni.
Agevolate anche le spese giudiziali che non potranno mai essere a carico del ricorrente a meno che il ricorso sia stato presentato in malafede. I lavoratori avranno diritto a risarcimenti adeguati che tengano conto delle opportunità perse e le autorità competenti potranno ottenere ingiunzioni di rimozione della violazione e di adozione di misure che garantiscano il rispetto dei diritti.
La certificazione sulla parità di genere
Con la certificazione della parità di genere le aziende possono già conformarsi. L’Italia qualche compito a casa lo ha già fatto per quanto riguarda la reportistica, ma per il recepimento della Direttiva dovranno essere introdotte nuove norme che richiederanno alle imprese di riscrivere le policy, rielaborare dati interni e disegnare percorsi di carriera al vaglio degli interessati, che avranno diritto di chiedere trasparenza.
Perché aspettare la promulgazione della legge di recepimento della Direttiva e ridursi all’ultimo?
Da poco più di un anno le aziende possono ottenere la certificazione della parità di genere. Una procedura che consente loro di sottoporsi all’audit di un organo accertatore per ottenere un certificato triennale che consente l’accesso a importanti sgravi contributi, premialità in gare pubbliche ma soprattutto vantaggi reputazionali.
Il certificato si ottiene conseguendo un punteggio attraverso la misurazione di alcuni KPI, che in gran parte dei casi coincidono esattamente con gli obblighi introdotti dalla Direttiva.
Pur essendo oggi ancora su base volontaria, il conseguimento della certificazione della parità genere o l’avviamento del percorso per ottenerla implica pertanto che la società debba già conformarsi alle prescrizioni della Direttiva, di fatto anticipando spontaneamente il soddisfacimento di requisiti presto destinati a diventare precetti normativi, ottenendo in cambio vantaggi in vari ambiti.
Certificazione e Direttiva convergono nella stessa direzione. Il vento caldo della gender equality soffia impetuoso dovunque. È ora che le aziende spieghino le vele per raccogliere il suo abbraccio e viaggiare più veloci verso nuovi orizzonti.
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Articolo a cura di Pasquale Siciliani, Avvocato DLA Piper