Il punto è il seguente: entro la fine del 2022 era in agenda la riforma delle pensioni che, sostanzialmente si aspetta da almeno due anni. Durante i quali sono state prorogate le misure di flessibilità in uscita, come l’APE Sociale e la Quota 100 diventata Quota 102, che dovranno essere sostituite, appunto, da una riforma organica. Nel discorso con cui si è presentato alle Camere per chiedere un mandato di fine legislatura, il premier Mario Draghi ha fatto un breve cenno alla riforma delle pensioni: «c’è bisogno di una riforma delle pensioni che garantisca meccanismi di flessibilità in uscita e un impianto sostenibile, ancorato al sistema contributivo».
Ora, è possibile che la riforma pensioni – a meno che non venga trinata dalla campagna elettorale – venga nuovamente rinviata.
In realtà, negli ultimi mesi c’erano stati nuovi ritardi sulla tabella di marcia della riforma pensioni. Il tavolo negoziale con i sindacati che si era aperto a inizio anno si è poi interrotto con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando sono subentrate nuove emergenze. Si è però riaperto proprio nelle scorse settimane un tavolo permanente con le forze sociali, sindacati e imprese, sull’intera agenda economica dell’esecutivo in vista anche della Legge di Bilancio. E in questo ambito, si parlava anche di riforma pensioni. Il prossimo incontro è fissato per il 27 luglio ma verterà essenzialmente sulle misure da inserire nel prossimo Decreto Aiuti bis.
A ben guardare, un precedente c’è: la famosa Riforma Fornero del 2011 in effetti fu messa a punto da un Governo che si era insediato a metà novembre (il Governo Monti, appunto). Però stiamo parlando di un caso eccezionale. C’era un’urgenza determinata dalla corsa dello spread, il Governo Monti era sostanzialmente un esecutivo tecnico. E, in ogni caso, il motivo per cui a dieci anni di distanza serve una nuova riforma pensioni, fra l’altro dopo molti correttivi alla Fornero (APE e Quota 100), è che la legge attuale non si è rivelata soddisfacente. Ha risolto il nodo della sostenibilità del sistema dal punto di vista dei conti (allungando l’età pensionabile), ma ha creato una grossa rigidità sul fronte della flessibilità in uscita. In un mondo del lavoro come quello italiano, particolarmente ingessato, e che in molti casi spinge per l’uscita anticipata.
Non c’è solo il nodo della flessibilità in uscita da risolvere in realtà: c’è la questione dei giovani con carriere discontinue, che rischiano di ritirarsi senza maturare nemmeno l’assegno minimo, il report INPS dimostra come anche la cosiddetta generazione X (nati fra il 1965 e il 1980), in molti casi andrà in pensione con assegni decisamente più bassi di quelli attuali. In parole semplici, la riforma dovrà restituire equità al sistema previdenziale. Altro punto importante, la previdenza integrativa: sta facendo progressi negli ultimi anni, ma rispetto al resto d’Europa i numeri italiani (sul fronte delle adesioni) sono relativamente bassi. In un contesto che vede ridursi il primo pilastro (la pensione vera e propria), a maggior ragione può risultare utile alimentare il secondo.
Il punto è che difficilmente ci saranno i tempi per fare una riforma delle pensioni vera e propria entro fine anno. Non ci sono certezze, diciamolo, davanti abbiamo una inconsueta campagna elettorale estiva che sarà determinante per l’agenda politica del prossimo autunno. Se non ci fossero i tempi per approvare entro fine anno una riforma, dal primo gennaio 2023 potranno ritirarsi solo coloro che maturano al pensione di vecchiaia a 67 anni, o quella anticipata a 41 anni e dieci mesi le donne e 42 anni e dieci mesi gli uomini.
Oppure bisognerà nuovamente prorogare gli attuali strumenti sperimentali di flessibilità in uscita.
- L’APE Sociale, che consente a determinate categorie di lavoratori (disoccupati, caregiver, persone con disabilità almeno al 74%, addetti a mansioni usuranti), di andare in pensione con 63 anni di età e 30 o 36 anni di contributi (ci vogliono altri requisiti, a seconda della categorie di appartenenza).
- La Quota 102, utilizzabile a 64 anni di età con 38 anni di contributi: al momento, entrambi i requisiti vanno maturati entro il 31 dicembre 2022.
- L’Opzione Donna, che consente alle lavoratrici di andare in pensione con ameno 58 anni di età se dipendenti e 59 se autonome, con 35 anni di contributi, tutti requisiti che vanno maturati entro il 31 dicembre 2021. La proroga allungherebbe di un anno il paletto per tutti i requisiti, e darebbe al nuovo Governo e al nuovo Parlamento il tempo per fare la riforma pensioni.