La buona notizia, in vista della riforma pensioni, è che il sistema previdenziale italiano ad oggi è sostenibile e lo sarà anche tra 15 anni, quando gli ultimi “baby boomer” nati dal Dopoguerra al 1980 si saranno pensionati, ma per mantenere la sostenibilità pensionistica occorre intervenire su una serie di fattori fondamentali:
- età di pensionamento (alzando la media attuale dei 62 anni),
- invecchiamento attivo (consentendo lasciare più tardi il lavoro),
- politiche attive (per contrastare le carriere discontinue)
- separazione fra previdenza e assistenza (per finanziare in univoco le pensioni).
Lo spiega Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, a margine della presentazione del del nono rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano, dal quale emerge anche l’impatto del Covid sul sistema previdenziale.
Riforma pensioni 2023: non solo flessibilità in uscita
La riforma pensioni entro il 2023 dovrà risolvere una serie di nodi, sulla flessibilità in uscita ma non solo. «La discussione politica si è concentrata sulle formule per accedere con anticipo al pensionamento – prosegue Brambilla – con il risultato di introdurre sì flessibilità nella fin troppo rigida legge Monti-Fornero, ma anche di vanificare, tra una salvaguardia vera e propria e una “camuffata” (dall’APE sociale a Opzione Donna, passando per la stessa Quota 100), buona parte di quei risparmi che la riforma mirava a ottenere, tutelando ora quella e ora l’altra categoria senza un disegno preciso alle spalle».
Il rapporto fra attivi e pensionati
Il 2020 ha inciso sul rapporto occupati/pensionati (sceso ad 1,42) a causa dall’emergenza Covid ed anche l’entrata in vigore di Quota 100 e delle altre forme di flessibilità in uscita come l’APE Sociale e l’Opzione Donna ha fatto crescere il numero dei pensionati, che si era abbassato nei precedenti dieci anni. Il rapporto attivi/pensionati è però fondamentale per la tenuta di un sistema pensionistico a ripartizione. La soglia minima per la stabilità di medio-lungo termine è pari a 1,5. Lo scenario dei prossimi anni resta tuttavia positivo: considerati gli investimenti pubblici e privati previsti tra il 2022 e il 2026 sull’onda del PNRR e gli scenari previsionali di ripresa economica e occupazionale post COVID, il rapporto ipotizza un’inversione di tendenza già entro il 2024, quando il valore dovrebbe assestarsi in prossimità dell’1,49.
Priorità per la riforma pensioni
Secondo Brambilla, il sistema pensioni in Italia è relativamente stabile e lo sarà anche in futuro. Tuttavia, per garantirne la solidità nel lungo periodo è indispensabile intervenire su 4 ambiti fondamentali:
- età pensionabile attualmente tra le più basse d’Europa (62 anni l’età effettiva in Italia contro i 65 della media europea), nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale;
- invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione;
- politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job;
- prevenzione, intesa come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute, anche intesa come previdenza complementare.
Il numero di pensionati assististi dallo Stato corrisponde al 48% di quelli totali e la spesa assistenziale è cresciuta del 56% in meno di dieci anni nonostante i cittadini in povertà assoluta siano raddoppiati. «Il modello italiano basato su distribuzione di sussidi senza controllo evidentemente non funziona» conclude Brambilla. Ecco perché è fondamentale separare i due sistemi di previdenza e assistenza.
Proposte di riforma pensionistica
Il rapporto contiene proposte specifiche. Ad esempio «la realizzazione di una banca dati dell’assistenza accompagnata dalla realizzazione definitiva dell’anagrafe generale dei lavoratori attivi, indispensabili anche per favorire l’attuazione di politiche attive: è la TAV del lavoro e, senza questa infrastruttura, le Regioni avranno difficoltà a operare».
In assenza di politiche attive adeguate, prosegue Brambilla, «le decontribuzioni – per il Sud, per le nuove assunzioni, per gli apprendisti, e così via – non producono risultati, favorendo incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni. Sarebbe semmai preferibile una politica attiva basata anche sul credito d’imposta che premia i lavoratori e le imprese dinamiche e non le attività di mera sussistenza e assistite, come già sperimentato con successo in passato».
Sul fronte della flessibilità in uscita, limitare le anticipazioni a pochi ma efficaci strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà, premiare l’anzianità contributiva (da sganciare dall’aspettativa di vita), equiparare le regole di pensionamento dei cosiddetti contributivi puri a quelle degli altri lavoratori.