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Fedeltà al datore di lavoro? Più che un dovere…

di Roberto Grementieri

Pubblicato 31 Maggio 2017
Aggiornato 10 Maggio 2019 14:42

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Lealtà, fedeltà e concorrenza leale altrimenti è legittimo licenziamento: obblighi e limitazioni normative del lavoratore nei confronti dell'azienda per cui opera.

L’art. 2105 c.c. vieta al lavoratore di trattare affari in concorrenza con il proprio datore di lavoro e di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. L’articolo è stato oggetto di un tormentato dibattito dottrinale, poiché pone innanzitutto il problema di stabilire se la disposizione in questione imponga al lavoratore un dovere di fedeltà inteso in senso lato o se sul prestatore di lavoro gravino esclusivamente i doveri negativi in esso espressamente specificati. Seguendo la tesi tradizionale, la giurisprudenza prevalente interpreta l’obbligo di fedeltà come un dovere di condotta tale da non pregiudicare l’affidamento posto dal datore di lavoro sulla persona del lavoratore.

Dovere di condotta

Il lavoratore deve astenersi non solo da comportamenti espressamente previsti (e vietati) dall’art. 2105 c.c., ma anche da qualsiasi altra condotta che per sua natura risulti in contrasto con i suoi doveri o sia comunque idonea a ledere il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro. Tale obbligo di fedeltà si manifesta soprattutto in riferimento allo svolgimento da parte del lavoratore di attività a favore di terzi, anche non in concorrenza con il datore di lavoro.

Ad esempio, secondo la giurisprudenza lo svolgimento di altre attività durante le assenze per malattia (Cass. n. 4868/1986) o la fruizione dei congedi parentali (Cass. n. 4079/1987) è da considerarsi vietato dall’art. 2105 c.c.  In caso di attività lavorativa in favore di terzi da parte del dipendente in malattia è pertanto legittimo anche il licenziamento, come ribadito dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 10627 del 22 maggio 2015.

Sono atti di infedeltà, inoltre, tutti quei comportamenti attinenti alla vita extra-lavorativa del dipendente idonei a ledere il rapporto di fiducia, come ad esempio l’emissione, da parte del dipendente di una banca, di assegni a vuoto (Cass. n. 11437/1995). L’obbligo di fedeltà opera solo durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, ossia per tutto il tempo in cui ha giuridicamente corso e, dunque, anche durante il periodo di preavviso (Cass. n. 299/1988).

Attività concorrenziale

Concluso il rapporto, l’attività concorrenziale del dipendente va valutata alla luce della libertà di iniziativa economica a lui riconosciuta, e può pertanto essere limitata dal solo patto di non concorrenza stipulato a sensi dell’art. 2125 c.c. o dal più generale divieto di concorrenza sleale. L’obbligo di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c. è quello di non trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore.

=> Lavoratori: obbligo di fedeltà non soltanto sul lavoro

Secondo la migliore giurisprudenza, non è possibile attribuire all’espressione “affari” un significato pregnante, dovendosi piuttosto porre l’accento sul termine concorrenza. In accordo con la finalità della norma, infatti, il termine deve essere inteso in senso generico e riferito ad ogni comportamento, atto o attività, purché in concorrenza o finalizzato a svolgere una attività concorrente.

Si deve inoltre considerare atto di concorrenza non solo quello tipicamente volto all’acquisizione di clienti (o di quote di mercato) a scapito del concorrente datore di lavoro, ma qualunque atto mediante il quale si realizza la competizione economica. In particolare, rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 2105 c.c. i cosiddetti atti di concorrenza sleale, tra questi particolare rilevanza è data allo storno di dipendenti (Cass. n. 3301/1985). In proposito si è osservato come tale attività tende oggi ad assumere una valenza decisamente meno negativa che in passato.

 Considerando l’utilità sociale della concorrenza tra imprese, si ritiene che lo storno di dipendenti sia illecito ex art. 2105 c.c. solo se commesso dal lavoratore in costanza del rapporto di lavoro, ma non al termine dello stesso (salvo quanto disposto dall’art. 2598 c.c. in materia di concorrenza sleale); si osserva, inoltre, che esso può considerarsi illecito solo quando sia attuato mediante una campagna denigratoria nei confronti del datore di lavoro che lo subisce o quando si inducano i lavoratori a violare a loro volta gli obblighi contrattuali. Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente è necessario che lo storno avvenga con l’intento di nuocere ovvero di danneggiare l’altrui azienda ben oltre la semplice perdita di lavoratori che passano alle dipendenze di un concorrente (Cass. n. 6712/1996) o, ancora, che avvenga utilizzando le specifiche conoscenze acquistate dai lavoratori nel precedente rapporto di lavoro (Cass. n. 6079/1996).

Comportamenti sleali

Viene considerato infedele, inoltre, l’acquisto anche per interposta persona (Cass. n. 3719/1988) di quote di società concorrenti (Cass. n. 645/1985) poiché sussiste un concreto interesse del socio alla crescita e all’affermazione sul mercato della società acquistata. È altresì atto infedele lo svolgimento di attività di commercializzazione dei prodotti dell’impresa datrice di lavoro (si è ad esempio sanzionato il comportamento di alcuni lavoratori che avevano acquistato i prodotti dal datore di lavoro in quantità superiore alle proprie esigenze personali e ad un prezzo inferiore a quello di costo, Pret. di Napoli 10.10.1994).In merito allo svolgimento di un’attività di lavoro subordinata a favore di imprese concorrenti in dottrina si sono sostenute tesi restrittive. Si ritiene di poter configurare una violazione dell’obbligo di fedeltà solo nei casi in cui sia provato sviamento di clientela, abuso di notizie riservate o concorso nell’attività di concorrenza sleale svolta da terzi.

Comportamenti leciti

Si ritiene invece lecito, in generale, lo svolgimento di lavoro subordinato a favore di datori di lavoro concorrenti in quanto questo non comporta automaticamente la commissione di atti pregiudizievoli per il datore di lavoro. La questione tuttavia non è stata ancora definitivamente risolta dalla giurisprudenza. Secondo un primo orientamento della Cassazione, non è in contrasto con l’obbligo di fedeltà lo svolgimento, a favore di una società concorrente, di lavoro di carattere non intellettuale e non comportante margini di autonomia e discrezionalità (Cass. n. 6381/1981).

Successivamente si è accolta però una soluzione più restrittiva della libertà di lavoro, affermando che l’art. 2105 c.c. è automaticamente violato in ogni caso in cui le due imprese datrici di lavoro siano concorrenti, indipendentemente dal tipo di mansioni cui è addetto il lavoratore. Ancora, visto che l’art. 2105 c.c. vieta qualunque comportamento che possa creare una situazione di conflitto con l’interesse del datore di lavoro, è in contrasto con l’obbligo di fedeltà l’instaurazione di un secondo rapporto di lavoro con altra società, pur svolgente attività di tutt’altro genere, se le due imprese datrici di lavoro utilizzano le stesse tecniche di intervento sul mercato (Cass. n. 7529/1995). Più di recente la Cassazione sembra essere ritornata sui propri passi, affermando che la concorrenza nel trattare affari per conto terzi nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato deve consistere in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale o di notevole autonomia e discrezionalità (Cass. n. 13329/2001).

=> Leggi di più sulla concorrenza sleale

Licenziamenti

La violazione dell’obbligo di fedeltà costituisce inadempimento contrattuale che dà luogo a responsabilità disciplinare e, nella maggior parte dei casi, integra la giusta causa di licenziamento. Poiché l’infedeltà costituisce grave violazione dei doveri fondamentali del lavoratore, la mancata previsione del comportamento infedele nel codice disciplinare non inficia la validità del licenziamento (Cass. n. 679/1989). Il lavoratore è inoltre tenuto al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro (Cass. n. 6473/1993). Nonostante questo, la giurisprudenza di merito tende a sanzionare raramente il comportamento infedele con il licenziamento.

Questo atteggiamento è stato assai criticato, in quanto non tiene in debita considerazione la necessità di valutare la proporzionalità della sanzione rispetto all’illecito commesso, soprattutto ove si consideri che il lavoratore è ben consapevole di aver commesso un illecito. In ogni modo, l’attività infedele del lavoratore è sempre imputabile all’impresa concorrente che se ne sia avvalsa per fare concorrenza sleale (Cass. n. 5708/1985, secondo la quale se il lavoratore fornisce notizie riservate idonee a danneggiare il datore di lavoro a un’impresa concorrente, quest’ultima è responsabile dell’illecito di concorrenza sleale, in quanto, fino a prova contraria, si presume che abbia partecipato all’infedeltà del lavoratore).