Lemuel Gulliver, in seguito a un naufragio, arriva nella sperduta isola nome Lilliput, abitata da uomini minuscoli ma eccellenti nella matematica e nella meccanica: il racconto dei “Viaggi di Gulliver” è una satira dell’Inghilterra del XVIII secolo, ma non serve scomodarne l’autore Jonathan Swift per descrivere una Lilliput più vicina a noi, quella delle aziende familiari, che sono l’ossatura del nostro sistema economico.
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L’Italia è tra i Paesi europei con il più alto numero di imprese familiari. Secondo le stime, nel nostro Paese le aziende a guida familiare sono 784.000, pesano circa il 70% in termini di occupazione e costituiscono il 60% del mercato azionario italiano. Stando ai dati pubblicati da KPMG e raccolti su un campione di 1.122 aziende, il 40% fattura meno di 10 milioni, il 25% tra 10 e 50 milioni, il 17% tra 50 e 200 milioni. Si tratta quindi in massima parte di aziende medio piccole, spesso originate da brillanti idee imprenditoriali, e ben radicate sui mercati esteri per via della grande qualità dei propri prodotti.
La differenza principale tra l’Italia e gli altri Paesi dell’UE è il minor ricorso a manager esterni da parte delle famiglie imprenditoriali. Secondo una ricerca realizzata da European House Ambrosetti per Federmanager, infatti, in 7 aziende su 10 l’intero management è espressione della famiglia, invece di essere reclutato sul mercato come accade tra i competitor esteri. Questo porta non solo a performance peggiori sotto il profilo della produttività rispetto ad altre nazioni, ma genera anche un impatto negativo sul livello di meritocrazia. Pare quindi che nelle imprese dove il controllo rimane saldamente in mano alla famiglia ci sia meno mobilità professionale e le aspettative di carriera rimangano più basse.
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L’impresa viene di solito intesa secondo due concezioni agli antipodi:
- una realtà produttiva autonoma rispetto alla famiglia, aperta all’apporto di capitali non familiari e al contributo di manager esterni per sopperire ad eventuali carenze di risorse e competenze familiari, per garantire competitività e sviluppo all’impresa;
- uno strumento della proprietà per perseguire interessi, con piani di sviluppo che non comportano soci non familiari e benefici riservati alla famiglia, con rischio di abuso degli asset aziendali e cariche manageriali esclusivamente interne.
La prima concezione è tipica di una proprietà definita responsabile, in quanto se l’impresa consegue buoni risultati la famiglia può trovare i modi per rimanere unita, ma nel momento in cui l’impresa declina quasi sempre ciò è motivo di liti e divisioni in famiglia. Una proprietà responsabile che intenda privilegiare la continuità aziendale, si munirà di un adeguato sistema di governance. Tale sistema dovrà necessariamente implicare:
- una qualche separazione tra i tavoli «familiari» e quelli «gestionali»;
- una chiara definizione delle responsabilità con separazione di ruoli;
- la definizione del ruolo del Presidente;
- la cura nel comporre il CdA, se possibile con membri esterni ed indipendenti dalla famiglia.
Il ruolo del Presidente non è molto diverso da quello svolto dai Presidenti in imprese non familiari, ma in questo caso è richiesta una particolare sensibilità al dialogo con i familiari. Il contributo dei consiglieri indipendenti, invece, deve tradursi in una maggiore trasparenza della gestione, una maggiore obiettività nei processi decisionali e di valutazione dei familiari, un uso più efficiente del tempo nel Consiglio di Amministrazione.
La cultura del merito, che quindi valorizzi la “competenza” più della “appartenenza” affonda le proprie radici nei sistemi valoriali più profondi degli individui e, quindi, anche delle famiglie imprenditoriali. Il valore del merito deve essere trasmesso alle nuove generazioni fin dall’infanzia e deve:
- basarsi sui risultati raggiunti (le performance) e non soltanto sulle buone intenzioni;
- basarsi sull’analisi delle competenze, delle inclinazioni personali e professionali, dell’adeguatezza tra tali competenze le necessità aziendali;
- coinvolgere nella valutazione i membri più anziani della famiglia e “attori terzi”, assicurando così l’assenza di conflitti di interesse o di valutazioni di parte.
Può capitare che all’interno di una famiglia si pensi che anche un figlio o una figlia meno capaci potrebbero imparare a guidare l’azienda, magari con l’aiuto di un manager non familiare. La complicazione aumenta in famiglie imprenditoriali composte da vari rami, rendendo estremamente complesse le comparazioni tra i figli di uno o dell’altro familiare. Il rischio è quello di cadere nel nepotismo, che assegna posizioni di responsabilità a persone inadatte o incapaci, scatenando una serie di problemi a catena in cui vengono coinvolti i giovani familiari, che si scontreranno necessariamente con gli altri manager – familiari e non –, gli altri manager e i dipendenti, l’azienda stessa, con conseguente rischio di demotivare e allontanare i propri collaboratori.
La cultura del merito non implica che i giovani familiari incapaci o inadatti siano privati dei loro diritti, ma che nel loro interesse siano guidati nel prendere coscienza dei propri limiti individuando ruoli loro adatti all’interno o all’esterno dell’azienda, o al limite ad esercitare solo il ruolo di proprietari consapevoli ed informati. Tema cruciale per le aziende familiari è proprio quello del passaggio della proprietà e della gestione da una generazione all’altra, tema che viene per lo più trattato come un affare di famiglia, senza il coinvolgimento di specialisti che possano assistere la famiglia in questa delicata fase. Si calcola che solo il 30% delle aziende sopravviva al passaggio in favore delle seconde generazioni, e solo il 15% nel passaggio successivo.
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In tali situazioni le esigenze aziendali spesso si confondono con le esigenze psicologiche ed affettive connesse ai vincoli di parentela, e tale ultimo aspetto è poco considerato anche da quei professionisti che eventualmente assistano la proprietà. Ma proprio la posizione di terzietà di questi professionisti, rispetto alle dinamiche familiari, può essere garanzia di una valutazione e costruzione più oggettiva di un percorso di cambiamento consapevole, che porti progressivamente al passaggio generazionale, senza inficiare il benessere della famiglia.
La consapevolezza della necessità di cambiamento deve scaturire dalla comprensione del fatto che, non affrontando il passaggio, si potrebbe determinare un danno sia in termini di minore crescita e minore redditività del business, sia di minore benessere ed autostima del gruppo familiare.
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di Lucio d’Auria, Ufficio Consulenti Finanziari