Un nuovo report, alla luce dei dati OCSE, compara i salari del lavoro dipendente in Italia con quelli delle maggiori economie dell’Eurozona. Da quanto emerge dallo studio (di Nicolò Giangrande, Ricercatore della Fondazione Di Vittorio), la retribuzione media è pari a circa 30mila euro lordi annui, con un crescente divario rispetto agli altri Paesi analizzati (le cinque principali economie UE): i salari risultano in crescita in Germania, Francia e nelle altre realtà prese in esame, tranne in Spagna dove lo scenario è simile a quello italiano.
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Né la pressione fiscale sui salari e il cuneo fiscale sul costo del lavoro aiutano a compensare gli squilibri, che non sono attribuibili a fattore terzi, come ad esempio l’orario di lavoro, che addirittura risulta fra i più alti tra quelli analizzati.
I fattori critici emersi dallo studio risultano invece essere differenti.
- Composizione del mercato del lavoro, con qualifiche medio-basse più diffuse rispetto alla media UE e in progressivo peggioramento.
- Diffusa precarietà (soprattutto tempo determinato) e part-time involontario (che è penalizzato in Italia in termini salariali, con un gap economico del 12,5%).
Complessivamente, oltre 5 milioni di lavoratori guadagnano appena 10mila euro annui. Sono dati confermati anche dalle dichiarazioni d’imposta dello scorso anni, secondo cui 15,6 milioni di contribuenti (79,7% del totale) hanno comunicato al Fisco 29mila euro di reddito da lavoro dipendente e fabbricati, ossia meno del salario medio lordo medio annuo.
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Passate politiche – volte a tagliare i costi contenendo gli scatti salariali, ma anche a non incoraggiare a sufficienza gli investimenti, determinando un limitato innovativo – hanno nel lungo periodo contribuito a generare meno competitività, bassa crescita e ristagno della base produttiva e occupazionale. Un quadro che ha inciso negativamente anche sulla domanda aggregata, tramite minori consumi.
Secondo lo studio, la scarsa crescita delle retribuzioni degli ultimi anni è stata dunque non tanto una conseguenza della
stagnazione italiana ma uno dei suoi fattori di causa.
Nel 2020 e 2021, inevitabilmente, gli effetti della crisi Covid non potranno che peggiorare questo sconfortante scenario. Le due misure messe in campo dal Governo a tutela dell’occupazione e del salario sono il blocco dei licenziamenti e gli ammortizzatori sociali, che probabilmente saranno prolungati ancora, a “tamponare” la situazione. Ma possono bastare?
Un riequilibrio dei salari italiani, non appena lo scenario lo consentirà, si rende dunque necessario, sia per rendere sostenibile questa lunga fase di transizione verso l’uscita definitiva dall’emergenza sanitaria e dalle sue tragiche conseguenze economiche, sia per dare nuovo slancio alla competitività del Paese. Come? Secondo il presidente della Fondazione, Fulvio Fammoni, le possibili direttrici sono:
- interventi che agiscano sulla quantità e sulla qualità dell’occupazione,
- nuova fase della contrattazione che rinnovi CCNL bloccati,
- riforma fiscale che recuperi risorse verso le retribuzioni.
Su tutto, conclude Fammoni, politiche in grado di generare fiducia, investimenti con l’accesso ai fondi europei, trasformazione del modello produttivo e risorse per far ripartire i consumi.