C’è un mercato estero sul quale l’Italia, a sorpresa, non è posizionato adeguatamente rispetto alle sue potenzialità: la Cina. Ovvero, il primo del mondo per dimensioni. Nel report presentato nel corso del tradizionale Forum Ambrosetti di inizio settembre a Cernobbio e dedicato al “Futuro dell’industria italiana” dopo la pandemia e la crisi globale, ci sono una serie di dati sull’intescambio che mostrano come ci siano margini ampi di crescita per l’export italiano ed il mercato cinese, verso il che fornisce il 10% delle nostre importazioni (35 miliardi di Euro, seconda solo alla Germania) ma assorbe solo il 3,2% del nostro export industriale.
l recente periodo di crisi, si legge nel report, potrebbe «rappresentare un trampolino di lancio per l’export italiano in Cina, soprattutto per quanto riguarda il comparto agroalimentare. Si prevede, infatti, che il ritorno alla normalità post Covid-19 farà registrare una crescita rilevante dei consumi in Cina, specie in quei settori che, a causa delle chiusure provocate dai periodi di lockdown, sono stati meno accessibili da parte del consumatore cinese (ristorazione, turismo, shopping)».
In generale, infatti, l’export italiano verso il paese asiatico è «meno valorizzato sotto il profilo industriale e più esposto invece verso le produzioni lusso».
Emblematico il caso delle esportazioni di vino italiano a Pechino. «Solo il 2% delle esportazioni di vino italiano sono destinate al mercato cinese, con una spesa media pari a soli 0,9 Euro per cittadino cinese». Siamo il quarto partner commerciale del paese asiatico, dopo Australia, Francia e Cile per valore di vino importato, con volumi e valori di vendite molto inferiori ai competitor. Per dirla in termini molto semplici, non ci battono solo lo champagne, gli Chablis, i grandi vini di Borgogna, ma anche le bottiglie di paesi, come Cile e Australia, che sono grandi produttori ma non hanno la tradizione italiana. Fra l’altro, come ben noto, la percezione del prodotto Made in Italy in Cina è da sempre molto positiva. Conclusione: ci sono ampi margini di crescita, e un terreno molto fertile per raggiungerli, almeno sul fronte del brand.
I primi segnali di mercato ci sono già: nei periodi immediatamente successivi alla riapertura post lockdown «il fenomeno del “revenge spending” (ossia il forte “rimbalzo” dei consumi successivo ad un periodo di forzata impossibilità all’acquisto) è stato in Cina particolarmente rilevante, specie in quei settori (come il turismo, la ristorazione e il fashion) in cui il prodotto Made in Italy può giocare un ruolo fondamentale».
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Il caso del vino si inserisce in un trend che vede più in generale le PMI del Made in Italy in difficoltà nei confronti della Cina rispetto a storici competitor: siamo stati battuti dalla grande distribuzione francese nell’alimentare e nella moda, e dalle imprese tedesche di dimensionamento medio-grande nel comparto industriale. L’Italia sconta un errore di fondo:
«non è stata in grado di vedere la Cina come un’opportunità ma solo come una minaccia alle produzioni a basso valore aggiunto che, soprattutto prima della crisi finanziaria del 2008, ancora permeavano il tessuto imprenditoriale italiano».
A questo si aggiunge una tradizionale difficoltà dell’export italiano nell’entrare in mercati nuovi ed emergenti, come la Cina e Paesi del Sud-Est asiatico.
L’export gap, ovvero la differenza fra le esportazioni reali e la media della quota di mercato italiana sull’export globale Ue, che misura le dimensioni del ritardo del Made in Italy su un determinato mercato, vede al primo posto la Cina. Con un gap di 8,9 miliardi di euro.
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Dunque, almeno fino a questo momento, una «grande opportunità persa del sistema industriale italiano», che fra l’altro è trasversale a molti settori, dall’agroalimentare alla meccanica.
La Cina viene identificato come uno dei tre mercati mondiali, insieme a Stati Uniti e Giappone, verso i quali l’Italia ha quindi un potenziale immediato. I best performer, mercati in cui il Made in Italy è ben posizionata, si concentrano in Europa, mentre ci sono altri mercati a potenziale strategico, come la Russia o l’India, sui quali investire in ottica di medio-lungo periodo.