I confini del mobbing in azienda, risultano oggi, grazie alla sentenza n.22858, emessa lo scorso 9 settembre dalla Cassazione.
La Corte Suprema ha infatti accolto il ricorso di una lavortrice torinese che aveva denunciato – chiedendo alla propria azienda un risarcimento per mobbing pari a 400mila euro – le numerose vessazioni subite per sei mesi sul posto di lavoro: appellativi sgradevoli, trasferimento di sede, sottrazione di un importante progetto di cui si occupava, isolamento dai colleghi con la collocazione in un ufficio marginale.
In pratica, vero e proprio mobbing, che ricordiamo indica giuridicamente una particolare condotta protratta nel tempo con l’obiettivo di danneggiare il dipendente.
Il Tribunale e la Corte d’Appello di Torino avevano respinto le richieste della donna perché ritenevano che 6 mesi fossero un periodo di tempo non sufficiente a concretizzare il mobbing.
Ebbene, la Cassazione, ribaltando quella sentenza, ha invece decretato che – escludendo gli episodi isolati – sono sufficienti anche pochi mesi di tempo per configurare una continuità delle azioni lesive a danno di un lavoratore, identificando tale comportamento come vero e proprio mobbing.
La Corte ha inoltre decretato che il datore di lavoro è sempre responsabile delle azioni dei propri dipendenti in posizone di supremazia gerarchica, e non può quindi sottrarsi alla sanzione essendo obbligato ad intervenire con misure concrete per tutelare la vittima.