L’Eurogruppo ha trovato un accordo su un pacchetto di risposte economiche alla crisi del coronavirus: 500 i miliardi destinati al fondo comune di assicurazione per la disoccupazione “Sure” (100 miliardi di prestiti ai governi), al fondo dell’emergenza della Banca europea per gli investimenti (200 miliardi di liquidità per le imprese) e per il Mes (oltre 200 miliardi).
Le risorse destinate a quest’ultimo (Meccanismo europeo di stabilità, detto anche Fondo salva Stati), sono linee di credito precauzionali pari al 2% del Pil di ciascuno Stato. Si potranno usare solo per finanziare i costi sanitari, diretti e indiretti, ma non per le altre spese socio-economiche indirettamente legate all’emergenza.
Il Recovery Fund, cioè la via francese agli Eurobond, non è contemplato, se non con una lettera del presidente dell’Eurogruppo ai leader Ue, non presente nelle conclusioni ufficiali e quindi senza valore legale. Rimane un impegno generico a lavorare su strumenti finanziari innovativi che permettano di spalmare i costi nel tempo, senza ulteriori specificazioni.
La presidente della BCE, Christine Lagarde appoggia l’ idea di un fondo di ricostruzione finanziato collettivamente dove si mettano insieme tutti i Paesi. Nei giorni scorsi, nell’annunciare la decisione della BCE di acquistare € 750 miliardi di obbligazioni in più in una significativa espansione del suo programma di acquisto di attività per affrontare “gravi tensioni” nei mercati finanziari, Lagarde aveva però dovuto registrare opinioni dissenzienti.
I membri del Consiglio pur concordando all’unanimità sulla necessità di intensificare l’azione della BCE, hanno espresso opinioni divergenti sul cosiddetto “approccio no limits” di Lagarde, sostenendo in particolare di fare affidamento sull’OMT – una misura non testata e controversa che consente di acquistare una quantità illimitata di obbligazioni di un Paese nell’ambito di un salvataggio ufficiale dell’UE.
In questo contesto, giova ribadire che nessuno Stato può essere chiamato a pagare i debiti di un altro Stato, e lo strumento dell’Eurobond lo esclude, al pari della creazione del fondo per la ricapitalizzazione della BEI, che ha il pregio, come rappresentato dal CEO di IntesaSanpaolo, di sfruttare la leva finanziaria della BEI moltiplicando per 6 la capacità di impatto.
Si avvierà ora il dibattito su quale sia lo strumento per alimentare il Recovery Fund. Al riguardo ci sembra rilevante assumere che la finalità della soluzione sia semplicemente quella di abbattere il costo del funding spalmandolo nel tempo mediante un accesso congiunto e coordinato centralmente al mercato finanziario, rispetto alla creazione di una spirale competitiva tra i debiti nazionali, visto l’ammontare delle cifre in discussione.
In queste circostanze può giovare ricordarci di un imperativo del grande razionalista Immanuel Kant: “Agisci in modo che la tua massima possa valere come principio di una legislazione universale”. Con ciò intendendo che le massime individuali vanno rispettate, ma soprattutto vanno rispettati gli imperativi universali.
Una possibile soluzione
Nell’auspicare soluzioni condivise tra tutti i Paesi, in presenza di Stati europei contrari, i cosiddetti “volonterosi” possono costituire il Recovery Fund oppure emettere bond multilaterali, garantiti dagli Stati che aderiscono ai principi fondanti dell’unione al fine di contenere il costo del funding allungando le scadenze.
I Paesi “volonterosi” rappresentano in totale circa il 60,5% del Pil europeo, a dati 2019, Germania esclusa. Sembra peraltro probabile che la Germania possa assumere una posizione diversa dall’Olanda, essendo il primo beneficiario di una ripresa europea.
L’idea potrebbe consistere nell’emissione di bond covid-19 garantiti dai paesi europei volenterosi, anche senza la partecipazione dei Paesi contrari, a lunghissima scadenza, 30 o 50 anni, attraverso un organismo comune: un meccanismo multilaterale di funding o fondo – che può essere velocemente costituito, ma con esclusione di vincoli di finanza pubblica e ingerenze nella politica nazionale dei singoli paesi che permangono nel MES “non sanitario”.
In sede di costituzione i singoli Governi aderenti non dovranno sottoscrivere importi ingenti nel capitale del fondo in quanto il loro intervento si sostanzia nella garanzia pro quota e nell’intervento finanziario nel piano di rimborso del debito emesso; con la conseguenza che non ci sarebbero impatti iniziali di finanza pubblica se non per la minima parte limitata alla gestione corrente del fondo medesimo.
L’importo delle emissioni, distribuite in un arco temporale di 18 – 24 mesi, sarà da determinare ovviamente in funzione di obiettivi comuni condivisi. Sulla base degli interventi posti in essere nella crisi 2007-2008, l’ammontare delle manovre dovrebbero raggiungere la cifra di 2,5-3 volte il PIL globale dei Paesi coinvolti, sulla base del modello USA.
La liquidità raccolta dall’organismo verrebbe destinata in minima parte alla costituzione di una riserva al servizio del debito medesimo, realizzando in sostanza un periodo ipotizzabile di due anni in cui i singoli Stati – in uscita dalla crisi Covid 19 – non sarebbero chiamati a intervenire per la copertura finanziaria del pagamento del servizio del debito. A partire dal terzo anno, i Paesi aderenti interverrebbero per il pagamento del costo del servizio del debito e il rimborso delle quote capitale pro quota.
L’eventuale alternativa potrebbe consistere nell’emissione di zero coupon bond, rinviando il pagamento alla scadenza finale. Considerato pero l’imponenza delle cifre in discussione, l’appetibilità sarebbe limitata prevalentemente alle compagnie assicurative.
Sarebbe pertanto opportuno l’utilizzo prevalente di strumenti amortizing.
Costo atteso e criteri di ingaggio
Nell’ ipotesi delineata il costo atteso del debito dovrebbe calcolarsi in teoria utilizzando un qualunque indice obbligazionario ex-Germania o ex-Paesi “falchi” (di facilissima ricostruzione); in realtà potrebbe posizionarsi anche a un livello inferiore, in quanto il funding ottenuto dai Paesi volenterosi consentirebbe una più rapida uscita dalla crisi e recupero del Pil rispetto ai Paesi esclusi.
I suddetti potrebbero incontrare una crescente difficoltà di approvvigionamento sui mercati – avendo al momento i loro bond rendimenti negativi – in presenza di un’offerta di bond con rendimento più elevato e rischio a scadenza molto più ridotto.
L’accordo di emissione tra gli Stati “volenterosi” può prevedere che il rimborso venga eseguito dagli Stati aderenti per gli importi utilizzati da ciascun Stato (capitale + interessi) oppure, come manifestazione tangibile di solidarietà, prevedere l’impegno al rimborso in funzione del PIL corrente annuale dei Paesi aderenti.
In questo modo si consoliderebbe un’idealità mutualistica per la quale i Paesi che cresceranno più velocemente (probabilmente la Francia) assorbirebbero una quota crescente del servizio del debito. Le modalità di rimborso sono comunque ininfluenti sullo strumento e andranno regolate in base agli accordi tra gli Stati “volenterosi”.
Forse, nell’avanzare questa soluzione come ultima arma dissuasiva nei confronti del Paesi “falchi”, una sorta di last call, sarebbe funzionale prevedere un vincolo di destinazione nell’ utilizzo dei fondi raccolti e redistribuiti fra gli Stati, per pagamenti esclusivi a favore di cittadini ed imprese dei paesi membri, sia si tratti di sussidi o di commesse, con esclusione espressa di aziende con sede nei Paesi non aderenti, o controllate o con soggetto economico ivi residente.
Questo eviterebbe peraltro di distogliere fondi dall’impatto moltiplicativo pro-ciclico sulle economie dei paesi aderenti a beneficio di altri.
Le considerazioni in termini di deroga ai patti UE per la libera prestazione dei servizi e limitazione della concorrenza risulterebbero ampiamente superate dalla espressa violazione dei principi fondanti dell’unione da parte dei Paesi non aderenti e giustificate dalle condizioni che regolano la provvista.
Mobilizzare il risparmio nazionale
Ma gli strumenti comuni, quali che siano, saranno sufficienti a trainare l’Italia fuori dalla crisi? Certo che no. I fondi raccolti con un Recovery Fund verranno destinati, per la quota parte che spetterà all’Italia, nell’ipotesi attuale parliamo di 100 miliardi di euro, al finanziamento delle imprese e degli interventi infrastrutturali, e non copriranno tutti i costi di rinnovamento delle filiere produttive e le necessità finanziarie per uno sviluppo sociale bilanciato con una crescita accelerata del PIL per garantire il servizio e il rimborso del debito aggiuntivo.
Occorrerebbe dotarsi di capacità di funding autonoma a livello nazionale, aggiuntiva e non sostitutiva al funding “europeo” per raggiungere un importo stimabile nell’ordine dei 200 miliardi di euro complessivi.
Gli High Impact Bond avrebbero lo scopo di mobilizzare una quota rilevante del risparmio nazionale attraverso la creazione di uno strumento pro-ciclico che riduca il costo del servizio del debito – attraverso il meccanismo delle detrazioni fiscali e in parte con una condivisione dei benefici dei programmi di investimento tra i diversi attori, privati ed imprese – al fine di controllare l’impatto sui saldi di finanza pubblica.
Gli High Impact Bond potrebbero essere utilizzati in parte anche per precostituire la liquidità necessaria per evitare che l’escussione della garanzia pubblica prevista dal DPCM di aprile metta a rischio il sistema bancario nazionale, che è ora più che mai un asset strategico per l’Italia.
_________
di Paolo Marizza (DEAMS) e Guido Rossi (Olimpia Credit Management)