Quanto costa ai contribuenti il sistema carcerario italiano? Soprattutto, quanto aumenta la spesa di tutto l’apparato redentivo nel caso in cui il detenuto, tornato in libertà, ricominci a commettere illeciti? Quanto ciascuno di noi crede fermamente e ha fiducia in un percorso di riabilitazione di chi si è macchiato di un crimine e, più di tutto, quanto ne sappiamo in proposito?
Il comune sentire è portato a pensare che non serva a nulla “il periodo di riflessione” all’interno delle case circondariali, un po’ per un atteggiamento prevenuto e conservativo verso chi commette illeciti e un po’ per le condizioni di vita tristemente note alla cronaca in cui versano i carcerati. La maggior parte può asserire che, una volta fuori dalle “sbarre”, l’ex detenuto si riappropri della propria vita “garantita” a spese dei contribuenti e, nella maggior parte dei casi, riprenda vecchie e rovinose abitudini per sé e per la società.
Purtroppo, i dati in nostro possesso confermano proprio tale triste realtà attraverso un tasso di recidiva pari al 70% (fonte DAP- Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e costi sempre più onerosi che gravano sulle tasche dei cittadini, confermando sfiducia nel sistema e prestando inconsapevolmente il fianco a facili e pericolosi appelli politici alla “pancia” invece che alla testa delle persone.
Quasi nessuno, però, si domanda perché tale numero sia così elevato e come funzioni la vita in carcere; o meglio perché tutto il processo detentivo e di riabilitazione non funzioni e si arrivi a trend così negativi e scoraggianti.
Ce lo chiariscono Oscar La Rosa, ex direttore di Semi di Libertà Onlus – associazione fondata da Paolo Strano e votata al reinserimento nel mondo lavorativo degli ex detenuti o ancora in libertà vigilata – Veronica e Massimo, gli attuali gestori di Vale La Pena Pub & Shop, primo esercizio fisico in Italia, completamente basato sull’Economia Carceraria, brand fondato da La Rosa che, già nel nome, racchiude la propria mission.
Il costo sostenuto dalla popolazione italiana per le carceri è di 3 miliardi di euro all’anno e circa il 90% si riferisce solo allo stabile e al personale in servizio, mentre le spese di mantenimento per la permanenza in galera dovrebbero essere a carico di ciascun detenuto che, scontata la pena, dovrebbe onorare il debito accantonato in carcere.
Cosa succede, però, se durante il periodo detentivo non si lavora? Difficoltà in un reinserimento totale nella società, nella ricerca di un lavoro regolare su cui sono applicate immediatamente le trattenute sullo stipendio e un automatismo quasi sconcertante al ritorno di vecchi schemi mentali o a modelli economici insani: ossia lavoro nero e una probabilità molto elevata di ritorno al crimine.
Anche in questo caso i dati sono allarmanti e il progetto di Oscar La Rosa assume connotazioni sociali ed economiche ancora più importanti: su 60.000 carcerati, 17.500 sono impiegati direttamente nelle carceri per mestieri quali lo scopino, il porta vitto, lo spesino, e solamente 2.500 sono i dipendenti delle cooperative o delle realtà aziendali che hanno deciso di assumere persone detenute e avviare un’attività produttiva in carcere.
Proprio da questi ultimi numeri, seppur ancora molto bassi, arrivano le notizie migliori. Il tasso di recidiva è totalmente capovolto, riducendosi del 70%, a significare che chi impara l’etica e l’impegno di un mestiere tende a replicare tale modello anche al di fuori del carcere. Chiaramente non vale per tutti ed è bandito ogni buonismo di sorta ma è necessario l’apporto del privato affinché tale sistema virtuoso funzioni e si immetta sul mercato forza lavoro fresca, pulita e in grado di pagare le tasse.
Inoltre, le imprese che decidono di assumere persone detenute possono beneficiare di tutta una serie di sgravi fiscali grazie alla legge Smuraglia del 2000 in base alla quale il costo del lavoro è nettamente inferiore rispetto al mercato libero. L’indotto generato dall’economia carceraria, in sintesi, porta innumerevoli vantaggi a tutta la società, non solo per l’abbattimento della recidiva ma anche in termini economici: per ogni euro investito in tale sistema virtuoso, lo Stato ne risparmia otto.
E’ indubbio, come ci spiega Oscar La Rosa, che “il pregiudizio gioca un ruolo molto forte specie se pensiamo alla fiducia e all’affidabilità che un imprenditore deve riporre verso i propri dipendenti”. Sentimento facilmente obiettabile se riflettiamo sul fatto che il carcere “è il posto più controllato d’Italia per cui la produzione segue determinati passaggi, tutti eseguiti alla perfezione”.
Non può essere altrimenti dal momento che le produzioni a cui si fa riferimento riguardano nella maggior parte dei casi prodotti alimentari, quali pasta, taralli, biscotti, caffè e tisane oltre alla birra; tutti lavorati secondo rigidi criteri artigianali e basati su materie prime eccellenti, provenienti dal territorio di appartenenza e disponibili nello shop del Pub Vale La Pena.
Si tratta del solo Pub & Shop di Economia Carceraria. Ubicato a Roma in via Eurialo 22 nel cuore dell’Alberone, uno dei quartieri più densi della Capitale, nasce due anni fa per volere di Paolo Strano e sin da subito ha goduto di un’accoglienza straordinaria da parte dei residenti e dei suoi avventori.
Gli attuali gestori riferiscono che Vale La Pena non è solo una birreria che prende vita la sera ma una sorta di casa dove le persone si ritrovano anche per lavorare e trascorrere la propria giornata. Aperto tutto il giorno, con wi-fi gratuito, attira frequentatori abituali che lo hanno eletto come spazio di co-working e proprio smart office.
Molte istituzioni, tra cui l’Università UNINT (Università degli Studi Internazionali di Roma), ha deciso di organizzare lì alcuni dei propri consigli di Istituto e di portare nelle proprie lezioni la case history della birreria e dell’Economia Carceraria, a riprova della bontà e della solidità di questo progetto dalle importanti connotazioni sociali ed economiche.