Open innovation, per un processo di innovazione aperto

di Stefano Gorla

Pubblicato 8 Settembre 2008
Aggiornato 30 Marzo 2015 11:25

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Un processo di innovazione più aperto: è questa la strategia a cui puntano le multinazionali ed è a questo punto che le piccole e medie imprese dovrebbero arrivare

Nel 2003 Henry Chesbrough, professore e direttore esecutivo del “Center for Open Innovation di Berkeley”, propose per primo il termine “OPEN INNOVATION” con il libro dal titolo “Open innovation: the new imperative for creating and profiting from technology”. L’innovazione può essere rappresentata da un segmento con un estremo che possiamo definire “incrementale” e l’altro “radicale”. Da una parte consideriamo il miglioramento incrementale di un processo o di un prodotto e, all’estremo opposto, un nuovo modello di business o servizio.

 

Chesborough, aggiungendo l’aggettivo “open”, ridefinisce l’innovazione come «un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso ad idee esterne, così come a quelle interne e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche». In sostanza, occorre aprirsi al mondo esterno, cercando di coglierne le idee migliori. La chiusa imprenditoria tradizionale si è fermata all’esortazione di “rubare il mestiere con gli occhi”, come quando i giovani apprendisti andavano nelle botteghe artigiane per imparare i segreti dei loro maestri sino ad arrivare a superarli in bravura.

 

La visione globale di Chesbrough formalizza e rende visibile il fenomeno delle multinazionali che passano da una strategia focalizzata all’interno ad un processo di innovazione più aperto: le buone idee non nascono solo nei grandi centri proprietari delle multinazionali ma in centinaia di migliaia di centri piccoli e molto creativi sparsi sul nostro pianeta. In questo senso le piccole e medie imprese rispetto alle multinazionali o piuttosto i piccoli comuni montani rispetto alle aree metropolitane possono fornire una corretta rappresentazione della relazione innovativa. E la rete porta ad una ulteriore progressione logica: la reinvenzione del processo di innovazione.

Con Internet è possibile innovare attraverso delle idee scambiate nei “social network” oppure affidarsi ad imprese professionali definibili come “broker dell’innovazione”. Questi nuovi tipi di broker rendono disponibile per clienti sia business che istituzionali le loro competenze per focalizzare l’area e i problemi su cui trovare soluzioni nuove sino a giungere a fornire un supporto all’applicazione dell’innovazione individuata all’interno del processo produttivo. Ninesigma, Innocentive, Yet2com, YourEncore sono oggi i quattro broker che a livello globale mettono in relazione l’open innovation dei ricercatori – stimati nel numero da 1 a 3 milioni – con le grandi aziende, soprattutto manifatturiere, in modo che anche con bassi investitmenti di capitale la rete consenta con i suoi nodi di fornire idee nuove per restare competitivi.

 

Ma non è certamente lecito concludere con un’immagine che paragona l’impresa/istituzione ad un “buco nero”. Il modello “open” è simmetrico: le multinazionali non solo comprano ma anche vendono, offrono brevetti e know how al mercato. Come sintesi della simmetria possiamo indicare le seguenti situazioni:

 

Out-licensing versus in-licensing

Con “in-licensing” si intende l’acquisizione di tecnologie brevettate o non brevettate, cioè del know-how, da parte di un’impresa, vale a dire l’acquisizione di tecnologia dall’esterno. Ma oggi non è certamente pensabile che un’impresa persegua una politica autarchica di sviluppo tecnologico per cui restituisce con il licensing out le “sue” idee innovative.

Svantaggi:

  • ampia comunicazione dei bisogni critici;
  • la valutazione include un grande numero di sconosciuti.

Come si vede in tutti i casi è presenta l’apertura verso l’esterno. Ma se l’Open Innovation si estende al cliente dell’impresa/utente del servizio pubblico? Eric von Hippel, responsabile dell’Innovation & Entrepreneurship Group del MIT, ha
studiato il “MODELLO 6”, ossia quando gli utilizzatori vengono coinvolti nel processo innovativo e innovano autonomamente con le risorse locali. Nel suo libro “Democratizing Innovation” illustra diversi casi in cui l’utente è stato il vero promotore e realizzatore dell’innovazione e casi in cui gruppi di utenti, attraverso una “saggezza collettiva”, hanno facilitato lo sviluppo di prodotti/servizi migliori.

Anche C.K Prahalad, professore presso la Ross School of Business dell’Università del Michigan, esplicita un nuovo modello di business con focus sul cliente e sull’accesso alle risorse. Da una parte l’impresa si sposta dal servizio all’esperienza (anche co-creata col cliente), dall’altra nessuna azienda è capace di soddisfare ogni singola esperienza del cliente per cui la soluzione sta nell’accedere ad un grande numero di aziende e competenze in tutto il mondo. In altre parole, l’impresa deve passare dalla “proprietà” delle conoscenze all’accesso alle risorse dell’ECOSISTEMA (C.K. Prahalad, M.S.Krishnan – The New Age of Innovation, 2008).

Gli utenti sono una risorsa preziosa per la ricerca e sviluppo, e devono essere consultati dalle aziende/istituzioni prima, non dopo aver sviluppato il prodotto, per essere davvero integrati nei processi di progettazione. Si tratta di trasformare in vantaggi gli svantaggi del MODELLO 5. Non c’è dubbio che il messaggio sia forte e chiaro sia per le imprese che per la PA. Il cittadino ha dei diritti e la burocrazia della PA deve coinvolgerlo in tutti i processi di riforma che intende attuare in modo da rendere i servizi sempre più rispondenti alle aspettative.

Il Web 2.0 rappresenta uno strumento in questo senso più che appropriato. Ne sono esempi i Social Network per le imprese. Per quanto attiene alla PA per introdurre le dinamiche del Web 2.0 occorre operare una migrazione da un’organizzazione per “funzioni” ad una rete di “relazioni” fra persone. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale al fine di rendere “fluida” la conoscenza: mentre il Web 1.0 si caratterizza con portali informativi, dati strutturati, sistemi documentali, ontologie e dizionari controllati, comunicazione asincrona, il Web 2.0 propone Blog, Wiki, Social Network, con un approccio bottom-up. Il Web 2.0 configura nuovi scenari: l’enorme volume di informazioni e contenuti a disposizione della PA potrebbe trovare dei nuovi canali di trasmissione e di fruizione da parte dei cittadini, che potrebbero usufruire in modo personalizzato e immediato delle informazioni riferite al proprio ambito di interessi. La PA d’altra parte potrebbe utilizzare la partecipazione come “controllo” al fine di migliorare la sua organizzazione.

Spin-outs versus spin-in
Intendendo con spin-out/off la nuova impresa creata per commercializzare le conoscenze e le capacità dell’impresa/istituzione. Spin-in è utilizzato, invece, per descrivere la capacità dell’impresa di attrarre e potenziare iniziative esterne in senso baricentrico.

Out-sourcing of development versus in-sourcing
Ossia l’esternalizzazione delle attività piuttosto che la convergenza interna intesa come “una nuova combinazione di fattori esistenti” o come l’introduzione di fattori nuovi o diversi rispetto a quelli precedenti.

Si può pertanto concludere che l’Open Innovation segua una “strategia duale”.

R.M. Davis, Director di NineSigma, in “How to make open innovation work in your company” (2006) traccia il seguente schema che classifica le varie tipologie di fonti per l’innovazione.

MODELLO 1: Sviluppo del fornitore
Esempio: Utilizzo a breve dei fornitori esistenti per sviluppare una specifica tecnologia o innovazione
Vantaggi:

  • relazioni esistenti;
  • costi e rischi ridotti;
  • elimina la necessità di cercare e valutare nuovi partner;

Svantaggi:

  • mancanza di nuove conoscenze;
  • migliori alternative derivanti dalla ricerca;
  • mancanza di vantaggi competitivi dovuta ai fornitori che possiedono brevetti internazionali.

MODELLO 2: Alleanza fra università
Esempio: Utilizzazione di Università o Professori specifici per lavorare sia sulla ricerca di base che su quella applicata
Vantaggi:

  • esperienza;
  • prospettive esterne;
  • relazioni sui brevetti predefinite.

Svantaggi:

  • mancanza di copertura della comunità globale dell’innovazione;
  • priorità multiple.

MODELLO 3: Sviluppo congiunto
Esempio: Partnership strutturata per sviluppare e portare sul mercato una nuova tecnologia o innovazione
Vantaggi:

  • competenze complementari;
  • rischi ridotti e costi distribuiti;
  • risorse dedicate.

Svantaggi:

  • potenziali conflitti culturali fra partner;
  • gestione degli aspetti competitivi;
  • gestione degli aspetti di proprietà.

MODELLO 4: Basato su sottoscrizione
Esempio: Una rete finita o “chiusa” di fornitori di soluzioni che lavorerà sulle richieste tecnologiche delle organizzazioni membre
Vantaggi:

  • proprietà dei Brevetti Internazionali definita;
  • ambiente strutturato;

Svantaggi:

  • l’assegnazione dei Brevetti Internazionali limita i potenziali partner fornitori di soluzioni;
  • ancanza di controllo sulla applicazione dei termini contrattuali;
  • le soluzioni identificate sono limitate ai membri facenti parte della rete;
  • sottoscrizione di royalties annuali.

MODELLO 5: Rete globale aperta
Esempio: Un processo strutturato per sviluppare richieste di tecnologia o di innovazione, e distribuzione delle richieste alla comunità globale della ricerca e della innovazione
Vantaggi:

  • controllo dei Brevetti e dei termini contrattuali;
  • accesso alle fonti globali di innovazione trasversalmente sulle discipline tecnologiche;
  • accesso immediato alle nuove tecnologie/innovazioni;
  • risultati da connessioni non ovvie;
  • potenziale identificazione di nuove tecnologie radicalmente innovative.