Una nuova riforma previdenziale che assicuri ai contributivi puri una pensione equiparata a quelli degli altri: questo, secondo Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, l’obiettivo che il nuovo Governo deve porsi in materia.
Un capitolo delicato, in considerazione della complessità dell’intervento e dei relativi costi, che secondo l’esperto (ex segretario al Welfare del Governo Berlusconi), potrebbe essere preparato con qualche intervento da inserire nella prossima manovra.
Ipotesi di riforma pensioni
La riforma definitiva «la farei nel 2020 per il 2021», quindi con la Legge di Bilancio non di quest’anno ma del prossima. E’ però possibile inserire qualche provvedimento fin da subito, ad esempio «dando certezza già oggi che quota 100 e tutte le altre opzioni attualmente previste vanno a concludersi».
Ricordiamo che al momento gli unici elementi sul programma del Governo che si sta formando sono i 26 punti dell’accordo fra M5S e Pd, nei quali non ci sono riferimenti in materia previdenziale. Un capitolo ancora da scrivere quindi, che Brambilla inserirebbe nella manovra che il nuovo esecutivo dovrà mettere a punto nei prossimi mesi.
Quella per il 2020 sarà una «manovra sicuramente complicata. Se non si tocca la parte fiscale, comunque vanno recuperati 23,5 mld, e con le spese indifferibili sarà una manovra da 30 mld».
Per il 2020 e 2021, ipotizzando che non cambi nulla sul fronte Quota 100 e Reddito di cittadinanza, si recuperano 3 miliardi per ognuna delle due misure, quindi 6 mld.
Come detto, quindi, si potrebbero inserire alcune misure nel 2019 e poi nel 2021 fare una riforma definitiva «che dia certezze a chi andrà in pensione interamente con il contributivo».
Quota 100
Quota 100, in base all’attuale legislazione (in pensione con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi) è sperimentale fino al 2021. Fra le ipotesi che si fanno in queste ore, relative alle misure da inserire nel programma di Governo, c’è la scadenza anticipata a fine 2020.
In ogni caso, spiega Brambilla «quota 100 mi preoccupa poco per il 2020, perché riguarderà meno di 50mila persone».
Con la manovra 2019, il suo suggerimento «è di cominciare a mettere in cantiere qualcosa sulla flessibilità in uscita», magari introducendo nuove possibilità, come 64 anni e 37 di contributi, oppure 67 anni tutti indicizzati.
Altra cosa che si potrebbe fare fin da subito è l’utilizzo dei fondi esubero per alleggerire il costo delle attuali formule sperimentali di pensione anticipata (APE Sociale, pensione Precoci, Opzione Donna), che costeranno un paio di miliardi.
Tutte queste opzioni, in ogni caso, dovrebbero essere destinate a scomparire, sostituite da una riforma complessiva del sistema. Che risolva innanzitutto la questione dei contributivi. In base all’attuale normativa, coloro che calcolano la pensione interamente con il sistema contributivo fanno fatica ad andare in pensione: ci possono andare con i 64 anni indicizzati, ma devono aver maturato un assegno 2,8 volte superiore all’assegno sociale, intorno ai 1350. Oppure a 67 anni, ma anche qui c’è il paletto dell’assegno maturato pari ad almeno 1,5 volte il minimo. Il risultato è che si tratta di lavoratori destinati ad andare in pensione a 68-69-70 anni, e che
sono quelli che stanno finanziando tutto il sistema adesso.
Una vera riforma deve puntare «all’equiparazione di tutti», in base ai seguenti parametri:
- utilizzo dei fondi esubero,
- 64 anni di età e 36-38 anni di contributi,
- 67 anni di vecchiaia,
- 42 anni e dieci mesi.
In pratica, si tratta di introdurre una nuova forma di flessibilità in uscita basata sulle quote, con un minimo di età e di contributi, e di ampliare la platea degli utilizzatori delle pensioni di vecchiaia e anticipate già previste. Infine, un’equiparazione anche sul fronte dell’integrazione al minimo per coloro che rischiano di ritirarsi con una pensione modesta pur avendo versato molti anni di contributi.