Gli ultimi dati ISTAT sul commercio estero riferiti al mese di maggio ci regalano una buona notizia: pur in una fase internazionale non particolarmente vivace, le nostre esportazioni sono cresciute su base annua (cioè rispetto al maggio dello scorso anno) dell’8%: una performance molto, molto brillante che ha portato un aumento del surplus commerciale di quasi due miliardi di euro rispetto al maggio 2018! Capperi che bel risultato! E in effetti un dato di tutto riguardo, e sotto molti versi inatteso, che confrontato con le prospettive di una crescita asfittica sembra dare uno sprazzo di ottimismo.
L’export salverà il nostro Paese e in effetti in quasi tutti gli scorsi anni è stato così…È sicuramente un export molto peculiare, quello che gli addetti ai lavori chiamano delle “nicchie globali”, ossia largamente basato sulla capacità di scovare aspetti di personalizzazione dei prodotti e di riuscire a valorizzarli verso un pubblico internazionale. Il Bel paese è leader in questa strategia di diversificazione: l’indice italiano di diversificazione è pari a 280 quasi l’80% in più di quello delle produzioni statunitensi e di quelle tedesche: più di due volte quello della Cina.
Tuttavia, questo modo di crescere ha come risvolto un ampliamento delle diseguaglianze tra chi esporta e chi no e anche all’interno delle stesse imprese esportatrici. Da noi ci sono tante aziende che hanno intrapreso la strada dell’export ma, per tante ragioni (anche di tipo dimensionale) non riescono ad agganciarla con continuità.
Siamo il paese delle micro imprese e dei micro esportatori! In Italia gli esportatori con meno di 10 addetti sono quasi 130mila, più del doppio delle aziende francesi, superiori comunque alle imprese tedesche e spagnole… ma se guardiamo i volumi di esportazione la situazione è molto diversa: le nostre micro imprese esportano, ma vendiamo in media quasi la metà delle micro imprese tedesche, quasi il 50% in meno di quelle francesi, più di un terzo in meno di quelle spagnole.
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Non basta: se ampliamo (anche se di poco) la dimensione aziendale, vediamo che le imprese esportatrici fino a 20 dipendenti in Italia sono l’83% e fanno il 12% delle vendite fuori confine, mentre nel 2012 erano l’82% ma vendevano quasi il 14%, in altri termini il loro volume esportato si è ulteriormente ridotto. In più abbiamo una quota consistente di potenziali esportatori che potrebbero accedere ai mercati internazionali ma non ci riescono: altre circa 23 mila imprese fino a 9 dipendenti potrebbero vendere “fuori” o lo fanno in modo molto occasionale.
Perciò, dietro i consistenti numeri dell’espansione all’estero, di fatto ci sono poche medie e grandi imprese italiane, e in ogni caso molto meno di quelle degli altri paesi se i primi cinquanta esportatori italiani fanno poco meno del 22% delle esportazioni totali, mentre in Germania la quota sfiora il 45% e in Francia il 47%.
In altri termini una crescita basata praticamente sulle esportazioni – nelle attuali condizioni – se rappresenta un fatto comunque positivo non riesce a generare diffusione dello sviluppo e c’è il fondato rischio che si possano aprire nuove divaricazioni e diseguaglianze, anche a livello territoriale, in assenza di policy per inserire le imprese più piccole nei più ampi circuiti dell’internazionalizzazione, facendo leva su due aspetti centrali:
- qualificazione del processo di sub-fornitura per realizzare un migliore ingresso nelle sempre più pervasive catene globali del valore a livello internazionale,
- crescita di una digitalizzazione funzionale a questa attività.
Oggi solo il 30% del commercio internazionale riguarda prodotti finiti realizzati in un paese e successivamente esportati per essere destinati al consumo o all’investimento in altri paesi. Il restante 70% è fatto da beni e servizi scambiati tra paesi lungo le catene globali del valore e l’Italia è in buona posizione al riguardo, in particolare per la subfornitura di qualità, essenziale per contribuire a un più forte processo di personalizzazione globale delle produzioni e quindi per sostenere quel 30% di prodotti finali.
Posizione delle imprese nelle catene globali del valore (composizioni percentuali) |
|||
Paesi | Imprese finali |
Imprese fornitrici |
Totale |
Germania | 60,3 | 39,7 | 100,0 |
Francia | 28,6 | 71,4 | 100,0 |
Spagna | 58,0 | 42,0 | 100,0 |
Italia | 35,3 | 64,7 | 100,0 |
Fonte: Agostini et al. (2016)
C’è poi il tema dell’impatto digitale di questi fenomeni.
Il 40% delle aziende che esportano più della metà del loro fatturato utilizzano attivamente queste tecnologie e il loro uso le porta a riconfigurare anche la posizione nelle catene globali del valore, ridefinendo il rapporto tra piccola dimensione d’azienda e scala internazionale.
Ecco perché una policy per favorire questi processi diviene anche un contributo per qualificare la subfornitura, ma anche un’importantissima pre-condizione per un migliore e più diretto accesso ai mercati internazionali.
Di conseguenza queste azioni avrebbero come conseguenza anche un processo di sviluppo trainato dai mercati internazionali meno concentrato e più diffuso, sia a livello d’impresa che di territori.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero, economista, si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese.
È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese.
Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).