Il salario minimo rischia di depotenziare i contratti e, nella misura proposta dal Movimento 5 Stelle a 9 euro l’ora, risulta troppo alto per l’Italia; crea difficoltà alle imprese e penalizza i lavoratori che verrebbero privati del welfare contrattuale: sono, rispettivamente, le posizioni di Confindustria e Rete Imprese Italia, in audizione sulla proposta in discussione alla Camera.
In linea di massima, dunque, il mondo imprenditoriale condivide le preoccupazioni espresse dai sindacati, a margine di un dibattito in commissione Lavoro che in realtà non riguarda soltanto la proposta del M5S sul salario minimo a 9 euro l’ora (in standby al Senato) ma una serie di risoluzioni presentate dai deputati sulla stessa materia.
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Salario minimo: importo
Pierangelo Albini, direttore Area Lavoro, Welfare e Capitale umano di Confindustria, propone innanzitutto una serie di considerazioni sulla misura del salario minimo di 9 euro l’ora, che
corrispondono all’80% del salario orario mediano registrato nel nostro Paese.
Tenendo conto dei livelli del costo della vita e dei tassi di cambio, 9 euro corrispondono a 11,5 dollari in parità di potere d’acquisto. Fissare il salario minimo legale a quel valore posizionerebbe il nostro paese al primo posto tra i paesi OCSE, la cui media è pari al 51%. In pratica, l’Italia finirebbe per avere così «il salario minimo più disallineato di tutti rispetto al salario mediano. Se prendessimo a riferimento il rapporto tra salario minimo e salario mediano della media OCSE,
il valore nel nostro Paese dovrebbe attestarsi a circa 5,74 euro.
Alla fine, il costo del lavoro aumenterebbe tra 4,3 miliardi (stime ISTAT) e 6,7 miliardi. C’è poi il tema dei contratti: «il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei contratti nazionali è ben più esteso del mero trattamento economico minimo».
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Salario minimo: adeguamenti
No anche al meccanismo tipo scala mobile, che determinerebbe per legge l’adeguamento dei salari all’inflazione: «le modalità e la misura per l’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione costituiscono uno dei temi più importanti di trattativa e di scambio contrattuale».
Affidare questo aspetto allo strumento legislativo determina uno svuotamento dell’esercizio dell’autonomia privata collettiva.
La proposta di Confindustria: determinare il salario minimo prendendo come riferimento «il sistema della contrattazione collettiva espressione delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale», individuando un «livello minimo di garanzia per i settori e le attività che fossero effettivamente prive di contrattazione di riferimento, in primis per le collaborazioni coordinate e continuative».
Infine, sciogliere il nodo della rappresentanza, individuando i soggetti più rappresentativi per trattare, combattendo il dumping contrattuale. Si tratta, sostanzialmente, di una posizione molto simile a quella espressa da Cgil, Cicl e Uil.
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Salario minimo: impatto sulle PMI
Anche più drastica la posizione delle PMI di Rete Imprese Italia: «siamo contrari all’introduzione di un salario minimo legale che consideriamo negativo per le imprese e per i lavoratori. Si colpirebbe la contrattazione collettiva, provocando un’alterazione degli equilibri economici e negoziali faticosamente raggiunti. Si creerebbero difficoltà alle imprese e finirebbero penalizzati proprio i lavoratori i cui salari sarebbero schiacciati sulla soglia minima e verrebbero privati del welfare contrattuale. Tutto ciò senza riuscire a combattere il fenomeno del lavoro nero né a risolvere la questione dei working poor».
Giorgio Merletti, presidente dell’associazione delle sigle delle PMI, propone un esempio specifico degli scenari che si aprono introducendo il salario minimo per legge: «nel caso in cui fosse inferiore a quello stabilito dai contratti collettivi ne provocherebbe la disapplicazione e, nel caso in cui fosse più alto, si creerebbe uno squilibrio nella rinegoziazione degli aumenti salariali con incrementi del costo del lavoro non giustificati dall’andamento dell’azienda o del settore».
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E comunque, «il salario minimo per legge vanificherebbe gli sforzi della contrattazione collettiva per individuare soluzioni alle mutevoli esigenze organizzative e di flessibilità delle imprese e rischierebbe di colpire tutele collettive e sistemi di welfare integrativi in favore dei dipendenti, come quelli applicati nei settori dell’artigianato, Pmi e del terziari».
Anche Rete Imprese Italia insiste particolarmente sul tema della rappresentatività e della necessità di combattere il dumping contrattuale.