Sarà pure colpa di certi titoli di giornale che “distraggono i mercati”, come ha spiegato il ministro dell’Economia Giovanni Tria al rientro dalla missione cinese, fatto sta che l’autunno che lo aspetta lo vedrà sudare sette camicie per resistere all’assalto della diligenza e comporre le numerose anime della maggioranza di governo, ciascuna interessata a portare a casa almeno un pezzetto delle roboanti promesse elettorali.
e Lega sanno bene che gli italiani li aspettano al varco della legge di Bilancio e che non potranno vantare l’introduzione delle loro misure bandiera (flat tax e reddito di cittadinanza) a pieno regime. Ma proveranno a farne passare dei pur costosi ologrammi.
Ecco dunque quali saranno le camicie su cui l’ex preside di Economia a Tor Vergata dovrà sudare parecchio.
1. Deficit
Il tetto del 3% fra deficit e Pil è fissato nel trattato di Maastricht. Non si sgarra, pena multe salatissime: le regole prevedono una sanzione per lo Stato inadempiente compresa fra lo 0,2 e lo 0,5% del Pil, a seconda dello sforamento. Senza contare le conseguenze politiche, incalcolabili. Più che sforare, quindi, negli ultimi giorni Matteo Salvini e i suoi hanno parlato di “sfiorare”. Per fortuna avevamo capito male.
Alla soglia massima c’è da aggiungere l’impegno preso dall’Italia a una dinamica di riduzione: la scorsa primavera il governo Gentiloni aveva programmato quel rapporto allo 0,8% ma ovviamente a politiche invariate.
2. Clausole Iva
Tecnicamente, servirebbe una legge di Bilancio solo per neutralizzare i 12,4 miliardi di aumenti delle aliquote Iva: quella ridotta del 10% passerà nel 2019 all’11,5% e nel 2020 al 13% mentre quella ordinaria del 22% crescerà dal 24,2% l’anno prossimo al 24,9% nel 2020 fino al 25% del 2021. Commercianti (non tutti, è vero) e industriali sono già sul piede di guerra, tanto che Confindustria minaccia di “scendere in piazza” dopo i primi mesi di approccio dialogante. Preparino scarpe comode, bandierine e fischietti: ci sarà da camminare.
3. Spread
Il costo per gli interessi sui nostri titoli pubblici continua a salire. Lo ha fatto nei mesi in cui, in sostanza, non è successo nulla a parte il mezzo decreto dignità. Figuriamoci con l’approvazione del nuovo Def e della legge di Bilancio monopolizzata dai desiderata di Di Maio e Salvini. Negli ultimi giorni è schizzato a quota 290 punti base per poi scendere di qualcosa. Sarebbe bello fregarsene, ma non si può. Come nessuna famiglia può permettersi una pessima reputazione quando chiede un prestito: ogni anno l’Italia deve collocare circa 400 miliardi di euro.
Fra l’altro, lo scarto nei rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni rispetto ai loro pari tedeschi si fa sentire sui ceti deboli: come spiega Federico Fubini sul Corriere, lasciar salire lo spread costituisce:
una redistribuzione dal basso all’alto e dall’interno verso l’estero; insomma è l’opposto esatto del programma di governo e accade per effetto delle dichiarazioni del governo stesso.
4. Reddito di cittadinanza
Secondo l’Inps, il reddito ci cittadinanza costerebbe 35 miliardi, il M5S ne calcola 15/17. Anche solo applicandolo in parte – e disinnescando l’Iva – si arriverebbe a una misura da almeno 20 miliardi di euro. Senza poter contare, anche per ragioni politiche estranee all’economia, su altra elasticità da Bruxelles.
Per giunta occorrerà anche iniziare a contestarla nel merito, quella misura. Per esempio a partire dai 780 euro stabiliti come soglia mensile: sono il livello di povertà indicato dall’Unione Europea ma corrisponde in realtà alla “povertà relativa”, cioè alla condizione di chi ha un reddito inferiore al 60% del reddito mediano. Insomma, il reddito di cittadinanza potrebbe anche produrre, per assurdo, nuovi poveri.
Per il momento a Tria verrà chiesto di farlo partire per 5 milioni di persone in stato di assoluta indigenza, sovrapponendosi pericolosamente ad altre formule già in vigore come il reddito di inclusione. Per l’Inps siamo intorno ai 6,2 miliardi di euro. Auguri anche con la riforma dei centri per l’impiego, che impiegano solo chi ci lavora.
5. Flat tax
Di Maio e Salvini continuano a garantire che la flat tax sarà attiva dal 2019. In realtà i cittadini possono continuare a pagare tranquilli: per ovvie ragioni di equilibrio di bilancio, se non vogliamo finire come il Venezuela, la tassa piatta non potrà essere applicata alle persone fisiche. E forse non ci si riuscirà mai.
Dunque verrà solo alzato il tetto di ricavi per le aziende che già pagano un forfait del 15%, includendo società di persone e capitali, fino a 100mila euro. Costo: circa 3,5 miliardi. E siamo ben oltre i 20 miliardi di euro per dei semplici antipastini.
6. Pensioni
Tanti soldi servono anche per la sbandierata “contro-riforma Fornero”. Abbiamo visto in passato come, probabilmente, si finirà per ricalcolare col contributivo anche la parte di carriera di chi aveva 18 anni di contributi nel 1995.
Ma pure la quota 100, per il momento, si fermerà a un’applicazione ridotta. E non è detto basti a togliere le castagne dal fuoco al titolare dell’Economia: quota 100 fra anni di contributi – con ulteriori vincoli piuttosto scivolosi, magari chi non ha abbastanza anni di contributivo non potrà andare in pensione – ed età anagrafica ma solo con 64 anni. Costo: per il piano complessivo 7-8 miliardi, per quello ridotto 2,5-3. Si schizza verso i 30 miliardi di euro. Roba da Scandinavia.
7. Coperture
Tutto questo e molto altro (per esempio i superammortamenti per le PMI) dovrebbe essere finanziato con eventuali nuovi spazi di flessibilità col deficit che salirà ampiamente sopra l’1,8% (anche se Tria non vorrebbe spingere troppo, dovrà sudarsela).
Ci saranno poi la spending review (tanti auguri, anche da parte di Carlo Cottarelli), l’eliminazione degli sgravi fiscali e forse un primo piano di “pace fiscale”, cioè l’ennesimo condono. Un Paese a debito che pensa di crescere continuando a spendere e spernacchiando chi gli fa ancora credito.