Se per il primo decreto del governo degno di questo nome si sta scatenando una guerra per bande di proporzioni inimmaginabili, che cosa accadrà fra qualche settimana? A settembre ci sarà infatti da consegnare la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. E poi da iniziare il percorso, di fatto già avviato, per la legge di bilancio.
Dopo quanto è successo nelle ultime ore – colpire Boeri per educare Tria – c’è da scommettere che il ministro dell’Economia ne uscirà con le ossa rotte. Oppure no, visto che alle spalle c’è il Quirinale.
Fra l’altro, dal momento che un vero Def politico non esiste, l’aggiornamento di settembre rischia di costituire già una sorta di prova del nove della tenuta dell’esecutivo.
Il punto è che mentre alcuni passaggi sembrano obbligati, basti pensare ai quasi 16 miliardi di euro per neutralizzare l’aumento automatico delle aliquote IVA, su altri non traspare alcuna ragionevolezza da parte della stragrande maggioranza delle componenti di governo, da flat tax a reddito di cittadinanza con cui si schizzerebbe oltre il 3% del deficit-Pil.
Il Mef vorrebbe infatti rimanere con un rapporto in linea con quello attuale, fra 1,5 e 1,8%. L’Europa, dal canto suo, ci spinge invece a proseguire sulla strada della riduzione sia di quel parametro così come del debito pubblico: è di pochi giorni fa l’ennesimo record certificato dalla Banca d’Italia, con un aumento di 14,6 miliardi sul mese precedente e una vetta di 2.327,4 miliardi.
Insomma, margini di manovra non ce ne saranno affatto. Proprio l’altro giorno l’Ecofin ha approvato le raccomandazioni della Commissione Ue di maggio che per il nostro Paese chiedono “uno sforzo strutturale di almeno lo 0,3% del Pil nel 2018, senza alcun margine aggiuntivo di deviazione sull’anno”.
Il punto è che stiamo deviando dall’obiettivo di medio termine e non stiamo rispettando il ritmo di contrazione del debito nel biennio 2018-2019.
Il paradosso è che finché con i soldi ci paghiamo gli interessi sul debito non potremo tornare a incidere davvero su istruzione, innovazione e infrastrutture. Insomma, su quei fronti che fanno crescere davvero un sistema economico. Al contrario, siamo destinati a rimanere bloccati in un circolo vizioso: da una parte i partiti di governo vogliono redistribuire in modo per giunta scivolosissimo senza che né i conti né la crescita lo giustifichino; dall’altra non c’è proprio nulla da redistribuire perché fra i nostri obiettivi dovrebbe figurare anzitutto quello di sistemare finalmente i conti per tornare ad avere le mani un po’ più libere.
Su tutto questo, le posizioni dell’esecutivo sono nella migliore delle ipotesi offuscate e nella peggiore pericolose. In certi casi, infine, semplicemente assenti o fantaeconomiche.
Ma oltre l’elemento strettamente economico c’è quello politico. Secondo molti osservatori Giovanni Tria sarebbe già nel mirino. Sì, sulla storia della relazione tecnica contenente le stime sugli 8mila posti annui persi per strada a causa della stretta sui contratti a tempo determinato il bersaglio è stato Tito Boeri, presidente dell’Inps. Che ha risposto parlando di “attacco senza precedenti” e di “negazionismo economico”.
Ma nel mirino c’è l’ex preside della facoltà di Economia di Tor Vergata di Roma. Il quale, come i pochi spiriti liberi e autonomi del governo, sembra già in ostaggio dei potenti vicepremier e degli “esperti”, presunti o meno, che ne guidano il confusionario operato.Tria e il suo gabinetto sarebbero infatti “troppo autonomi” rispetto al governo, spiegano le cronache. Posizione effettivamente verosimile allargando lo sguardo anche ad altri temi essenziali sul tappeto, come gli accordi commerciali internazionali (vedi Ceta) e le nomine di competenza del Tesoro.
Per questo alcuni funzionari del Mef, quelli sospettati di aver chiesto all’istituto di previdenza di mettere una manina nel decreto dignità dopo che una relazione del ministero del Lavoro aveva assicurato zero impatto sui posti, potrebbero essere ascoltati in audizione alla Camera. In un inedito processo parlamentare.
Vedremo in quel caso le reazioni di Tria, se e come difenderà il suo gruppo di lavoro in gran parte ereditato da Pier Carlo Padoan: se Di Maio e i suoi riusciranno a sostituire alcuni elementi sgraditi come il capo di gabinetto Roberto Garofoli o se, invece, il responsabile sceglierà di far sentire il peso della poltrona che occupa.
Comunque vada, sarà un insuccesso. I 5 Stelle, ben più della Lega di Salvini, avrebbero bisogno di un ministero dell’Economia accondiscendente. Per non dire sdraiato sulle loro posizioni. In autunno, Tria dovrà far capire ai suoi referenti e agli italiani (che non lo conoscono) di che pasta è fatto.
In ogni caso si capisce meglio, dopo un paio di mesi dal varo dell’esecutivo grilloblu, l’assoluta centralità di via XX settembre e il rifiuto di Sergio Mattarella di veder seduto sulla poltrona di Quintino Sella l’euroscettico Paolo Savona. Tutto si tiene, nulla si distrugge, molto si minaccia.