Mentre il dibattito si sviluppa con una certa vivacità intorno al cosiddetto “decreto dignità” – un provvedimento che contiene cose in parte buone, in un contesto in parte fuori fuoco – nel frattempo accade un altro fatto dirimente per il futuro del governo gialloblu, la cui campagna d’autunno si combatterà tutta intorno alla nota di aggiornamento al DEF di settembre e poi nella legge di bilancio.
L’audizione del ministro dell’Economia Giovanni Tria, infatti, non lascia spazio a equivoci: margini per lanciare la flat tax e il reddito di cittadinanza già quest’anno non ce ne sono. Il suo:
non aumento della spesa nominale per parte corrente
raccontato alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, chiude le troppe speranze per la tassa piatta e una qualche prima formulazione del reddito universale.
Tria ha detto cose in fondo condivisibili. Sensate. Allineate alle preoccupazioni del predecessore Pier Carlo Padoan, che infatti ha apprezzato l’intervento.
A proposito: a quanto pare, iniziano preoccupanti movimenti intorno al suo capo di gabinetto Roberto Garofoli, ereditato proprio da Padoan e considerato troppo vicino al precedente esecutivo a guida Pd. E, sembra, principale artefice delle difficoltà e degli ostacoli (di bilancio, non certo politici) ai contenuti, poi in gran parte scomparsi, del “decreto dignità”, svuotato nella sua parte fiscale.
Il responsabile di via Venti Settembre rimane dunque sulla strada del rigore. Per limitare i danni, già notevoli, prodotti dalla sfiducia-speculazione sui titoli di Stato italiani.
Da una parte disegna uno scenario non troppo positivo, con l’economia in “rallentamento”, legata anche alla guerra dei dazi che è solo all’inizio e promette di costruire un nuovo arcipelago di relazioni internazionali (vedi le pressioni cinesi sull’Europa).
Dall’altra, conferma che non potrà in alcun modo avvenire una inversione di tendenza nel percorso di consolidamento dei conti pubblici. Proprio per mantenere quella fiducia nel Paese e presentarsi con qualche carta in più a Bruxelles, quando bisognerà chiedere ancora elasticità pur avendo compromesso i rapporti sotto molti altri punti di vista.
Quel che interessa, però, è lo stop – già dimostrato col decreto targato Di Maio – a “misure che possano peggiorare i saldi” così come quello alla spesa nominale, quella per stipendi, pensioni e sanità. Che dovrà dunque inchiodarsi ai livelli del 2018 invece di crescere, come prevedeva il Def lasciato in eredità da Padoan in primavera.
Questo significa che, rispetto al quadro complessivo dei conti, non solo non si potrà spendere. Ma occorrerà risparmiare, strizzando quella spesa di 10 miliardi il prossimo anno, 21 nel 2020 e 33 nel 2021. Margini di manovra per provvedimenti dispendiosi come la flat tax (costo stimato 50 miliardi), la riforma della legge Fornero (15 miliardi solo per il primo anno) e il reddito di cittadinanza (2 miliardi per i centri per l’impiego e 17, stima il M5S quindi è tutto da verificare, a regime) non sembrano esserci. Anzi, non sembrano essere neanche cantierabili.
Non è un caso che, come abbiamo spiegato anche in altre occasioni, per ora flat tax e reddito si siano trasformati in poco più che dossier di studio. Come ha spiegato Tria rispetto alla prima iniziativa, targata Matteo Salvini:
La studieremo in un quadro coerente di spesa.
Mentre sul secondo fronte, più caro ai 5 Stelle, Tria ha precisato che il reddito di cittadinanza non dovrà trattarsi di una misura “assistenziale”. Quindi dovrà essere tarata e legata a doppio filo all’impiego, dovrà essere a tempo e ovviamente, nonostante la vulgata, non per tutti ma solo per chi abbia il solito reddito sotto una certa soglia.
Per quale ragione non lavorare sul reddito di inclusione, che ormai riguarda una platea potenziale di 2,5 milioni di italiani, arricchendone le dotazioni, rimane un mistero propagandistico.
Non ci sarà manovra neanche spingendo sul deficit strutturale, il cui rapporto rimarrà per il 2019 all’1% invece di scendere allo 0,4% ma che servirà a sterilizzare l’aumento IVA pronta a salire dal 22% al 25% (quella ridotta dal 10% all’11,5% nel 2019 per poi arrivare al 13% nel 2020).
Forse alla fine qualcosa ci finirà, nella Legge di Bilancio, perché la costruzione del presunto Paese reale alternativo vorrà il suo prezzo.
Bisognerà capire se Tria riuscirà a contenere i desiderata propagandistici mantenendo altrettanto salda la sua poltrona, già traballante per un primo, mediocre decreto.