Riflessioni sulla crisi economica, ma anche e forse soprattutto questioni cruciali per i business leader nel 2009: esplorare nuovi mercati, trovare talenti, conoscere e utilizzare nuovi strumenti. È l’ultima edizione delle idee innovative per l’anno in corso della Harvard Business Review, una lista di 20 tematiche, diverse l’una dall’altra ma tutte “more useful that fanciful”, piu’ utili e praticabili che non fantasiose, in un contesto particolare, con l’amministrazione americana appena cambiata e nuove sfide davanti a tutti.
Giusto per fare il primo esempio, Paul Saffo, analista della Silicon Valley, spiega che gli Usa rischiano la fuga di cervelli. I segnali di quello che viene definito un “enorme cambiamento nell’ordine economico internazionale” non mancano: i giovani che cercano lavoro considerano aziende in tutto il mondo, Singapore assume gli accademici più prestigiosi d’America (il primo sismologo della California e il numero due fra gli scienziati dell’Istituto Nazionale della Salute sono espatriati), c’è una corrente migratoria piccola ma costante dalla Silicon Valley verso la Cina, i farmers del Midwest cercano fortuna in Brasile, dove il valore di immobili e terreni è basso.
La crisi sta accelerando questo trend, e il ruscelletto che riguarda quasi solo i top diventerà un’inondazione quando ad andarsene saranno i manager a metà carriera. I figli degli espatriati di oggi sapranno una seconda lingua imparata all’estero, come il cinese o il portoghese, e sempre più genitori si rendono conto del vantaggio. Per rispondere a questa nuova diaspora sarà importante la politica del Governo, conclude l’esperto, secondo cui è importante non cedere al “protezionismo” dell’intelligenza, per esempio obbligando chi ha frequentato università pubbliche a lavorare per un certo numero di anni nel paese, ma piuttosto fare in modo che l’America resti un posto attrattivo per aziende, studenti e lavoratori.
Marcelo Suarez-Orozco, docente di macroeconomia alla New York University, analizza il cosiddetto “Western Union World”, un universo di circa un miliardo di consumatori che, nel 2007, hanno “mandato a casa” soldi per un totale di 350 miliardi di dollari, piu’ del triplo rispetto agli aiuti al terzo mondo dei paesi Ocse (organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione internazionale).
Un’azienda che lo ha capito è, appunto, la Western Union, che nei cinque anni dal 2002 al 2007 ha visto le entrate balzare da 2,7 a 4,9 mld di dollari. Il Ceo Christina Gold ha detto al New York Times: «l’emigrazione globale è la pietra miliare che ci ha fatto crescere».
Il migrante invia soldi e prodotti, è un importante “trendsetter” nel paese d’origine, e diventa un consumatore particolare nel nuovo ambiente (una famiglia appena arrivata dal Messico negli Usa andrà da Sears a comprare la lavatrice il giorno della mamma perchè in Messico si usa così, un padre cinese per festeggiare il figlio che va al college lo porterà da McDonald’s, non in un ristorante elegante, perchè probabilmente è quello che ha fatto lui stesso, al suo paese, dopo la maturità).
Gli stili di vita del terzo millennio portano a nuovi modelli di business. Michael I.Norton, professore alla Harvard Business School, ha studiato insieme ai colleghi Daniel Mochon, di Yale, a Dan Ariely, della Duke University, il “fattore Ikea”, il lavoro che diventa esperienza vendibile. All’inizio, spiega, le casalinghe rifiutarono i dolci istantanei, quando le miscele iniziarono a richiedere anche solo l’aggiunta di un uovo, le vendite decollarono. Il fattore Ikea ha però dei limiti, come il sunk cost effect, effetto di costo sommerso, per cui il manager per esempio continua a destinare risorse a un progetto, magari deludente, solo perchè ci ha già investito il proprio lavoro, oppure la “sindrome del non inventato qui”, per cui talvolta si scartano idee migliori solo perché sviluppate altrove