Secondo Roy Thompson, uno dei più grandi uomini d’affari della nostra epoca, «se si vuole riuscire bisogna pensare, pensare fino allo spasimo». Pensare per decidere: l’atto di fronte al quale ogni giorno tutti ci troviamo. Decidere cosa mangiare, dove andare in vacanza, quale shampoo acquistare, quando chiedere il divorzio.
In un’ottica aziendale, la decisione è l’atto più importante del ruolo di manager. Una buona capacità di problem solving e decision making risulta essere una delle doti più ricercate nei leader. Prendendo in analisi il modello classico, le decisioni che sono particolarmente interessanti per l’economia passano attraverso una serie di fasi standard che si susseguono nel processo della decisione: la ricognizione del problema; la definizione del problema e degli obiettivi; la definizione dei criteri della decisione; la generazione e la valutazione delle alternative; la scelta di una soluzione; l’implementazione della decisione; la valutazione e il controllo della decisione.
Dal modello razionale possiamo quindi ricavare una serie di presupposti: il contesto in cui viene presa la decisione è ininfluente; il decisore è un essere razionale e non influenzabile; le alternative vengono analizzate tutte parallelamente ed è possibile individuare la soluzione che ottimizzi i benefici ed elimini tutti i problemi. Ma è davvero così?
Niente affatto. Alcuni studi di economisti, psicologi sperimentali e cognitivi (vincitori di premi Nobel come Simon e Kahneman) smentiscono la validità del modello classico dimostrando l’importanza di altri fattori come l’influenza del contesto, la limitata razionalità del decisore, e la sua influenzabilità da parte di semplici elementi come le emozioni. Del resto, è proprio la mancanza di considerazione verso le caratteristiche endogene ed esogene al soggetto, a far sì che la teoria razionale non sia in grado di spiegare perché il comportamento umano si discosti, sia in sede reale che sperimentale, dalle sue previsioni.
A quanto sembra, il controllo dei fattori emozionali risulta fondamentale al fine di assumere una decisione eccellente. Secondo J. J. Gross, il controllo delle emozioni può essere categorizzato in due processi:
- Antecedent-focused emotion regulation, che consiste nel modificare i propri sentimenti e sensazioni cambiando la situazione o le percezioni della situazione fonte di tali emozioni. Fanno parte di questo processo alcune strategie, quali: avvicinare o evitare le persone o le situazioni sulla base del loro probabile impatto emotivo (Situation Selection); modificare un ambiente così da alterarne l’impatto emotivo (Situation Modification); prestare o meno attenzione a qualcosa in modo da influire sulle proprie emozioni (Attentional Deployment); scegliere che significato dare ad una certa situazione. Il significato personale che viene attribuito ad un certo evento è cruciale nel determinare quali risposte emotive, comportamentali e fisiologiche saranno attivate (Cognitive Change).
- Response-focused emotion regulation, che consiste nel modificare il proprio comportamento nel momento stesso in cui si prova un’emozione, nascondendo, modulando o falsificando la propria risposta emozionale.
Questi due processi si attiverebbero quindi in due differenti momenti: il primo va ad influire sugli input che stimolano una risposta emotiva, quindi prima che l’emozione sia esperita, mentre il secondo si attiva quando l’emozione è ormai stata generata dallo stimolo esterno, e va quindi ad influire sulle manifestazioni esterne di quell’emozione. Sulla base di precedenti ricerche, alcuni autori hanno sottolineato come il grado di libertà che gli individui hanno sul proprio comportamento, possa fornire risorse cognitive molto utili nelle situazioni difficili o logoranti, come ad esempio quelle che richiedono un elevato controllo delle proprie manifestazioni emotive.