I 100 anni del taylorismo in Italia

di Luca Libanora

15 Giugno 2009 10:00

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Quanto resta del taylorismo a 100 anni dallo Scientific Management? Certamente non siamo più ai tempi di "Tempi moderni" di Charlie Chaplin, ma permane il desiderio dei manager di controllare tutte le variabili di processo

Sono passati 100 anni da quando Frederick Winslow Taylor, parlando alla Harvard Business School, anticipava la pubblicazione del suo “The Principles of Scientific Management”, dando origine al movimento che traghetterà, insieme al fordismo, l’industria americana agli attuali livelli. Tuttavia, il modello puro dello Scientifica Management non ha avuto molto successo: già dopo soli 4 anni il Rapporto Hoxie al Governo Americano ne evidenziava i limiti e lo sciopero all’arsenale militare di Watertown dimostra che non fu certo ben accolto dai lavoratori.

La nascita delle “Risorse Umane”, con gli studi di Elban Mayo alla General Electric, pose l’attenzione agli aspetti psico-sociali finora negati dal taylorismo. Alla Cleveland Twist Drill Co., nel 1900, si produceva utensileria con metodi che ponevano il benessere lavorativo come condizione di controllo dell’esito dei processi, a dimostrazione che il taylorismo non nasceva su un terreno particolarmente fertile. Da allora, anche sotto la spinta delle lotte sindacali, il taylorismo è stato relegato ai primi capitoli dei testi di sociologia del lavoro (come sostengono Touraine e Blauner) ma, secondo alcuni, non è del tutto sopraffatto: chi lo vuole edulcorato nel modello post-fordista e tutt’ora incarnato nelle catene di montaggio dell’economia di scala, chi sostiene che siamo in una situazione post-tayloristica grazie alla microelettronica e all’automazione (come Kern e Schumann); chi, infine, propone di superarlo con un approccio che enfatizzi gli aspetti mentali e motivazionali del lavoro (come Robert Blauner).

In realtà Taylor, e ancora di più Henry Ford, desideravano imporre un modello culturale che includesse il controllo non solo su procedimenti estremamente parcellizzati, ma anche nelle rappresentazioni individuali dei singoli lavoratori. Ma cosa resta oggi del taylorismo? Del modello puro, probabilmente nulla. Tuttavia gli aspetti culturali sono travasati in molti modelli di job design attuali. Già negli anni ’60-70, nella restituzione di una ricerca condotta presso la FIAT del boom economico si legge di uno stretto controllo spaziale e temporale sui lavoratori. Era evidente il desiderio, da parte del management, di presidiare in ogni mimino micro-comportamento il processo produttivo, per limitare la variabilità di comportamenti. I tentativi successivi di imporre modelli differenti sono falliti, come racconta il sociologo Matteo Rollier, che per molti anni si è occupato nella Fiom di organizzazione del lavoro.

Rollier ha cercato di proporre il modello conosciuto negli stabilimenti Volvo e successivamente quello giapponese, addolcito per la nostra cultura. Ma senza successo, per le energiche resistenze del management. Molti autori, si sono esercitati nel definire i motivi di tale rifiuto: chi lo attribuisce allo scontro fra la forza del capitale e la forza del lavoro e chi, forse semplicisticamente, all’eco dell’arretratezza culturale del management italiano.

Un’ipotesi più suggestiva può far riferimento agli aspetti psicologici che condizionano i modelli mentali di chi controlla e dirige il lavoro, sottoposto allo stress del gap fra le aspettative e i risultati. Uno schema ordinatore della psiche umana è la coerenza, la riduzione dell’incertezza: la dissonanza provocata dall’indeterminatezza degli esiti è in stretta correlazione con l’ansia, come descritto da Festinger nella sua Teoria della dissonanza cognitiva. L’ansia è quel particolare stato psicologico che orienta le azioni umane, secondo il principio di coerenza.

Edgar Schein, parlando di cultura organizzativa, attribuisce una sorta di modalità evolutiva alla scelta delle procedure ed i modelli comportamentali che compongono i processi lavorativi, selezionati in funzione del livello di ansia, in un range di opzioni che garantiscono il risultato. La “one best way” di Taylor garantisce pertanto, a chi presidia i processi, un “alibi” di natura scientifica, poichè da sempre la scienza, come la magia e la religione (prendendo a prestito il pensiero antropologico) sono elementi ordinatori quando la psiche non è in grado di dare significazione alle rappresentazioni complesse.

Il taylorismo e il post-fordismo non sono pertanto ancora sradicati dalle economie di scala, orientate all’iper-controllo delle variabili in gioco, anche quelle relative agli eventi futuri? Forse. Del resto non c’è traccia in letteratura di ricerche finalizzate, successive a quella già citata negli stabilimenti Mirafiori.

È molto probabile, invece, che il taylorismo sia radicato nei modelli mentali, ancora prima che quelli esecutivi, dei livelli gerarchici manageriali, fortemente sbilanciati verso un desiderio di controllo, di tipo meccanicistico, degli esiti del lavoro, secondo modelli lineari che colleghino le dimensioni psicologiche alle caratteristiche dei processi grazie ad algoritmi facilmente descrivibili.