La gestione degli spazi di vendita: la psicologia dell’attenzione

di Daniele Piovino

25 Giugno 2010 08:00

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Colori, packaging, messaggi acustici, pubblicità in-store (animazione, degustazione, dimostrazione, sampling), promoter: non mancano gli stimoli

Se c’è qualcosa che non manca negli spazi di vendita sono gli stimoli. Questo paga sempre? La sentenza della ricerca ci dice che non sempre è così. Cosa fare quindi? Le soluzioni esistono, vediamo insieme quali sono.

Innanzitutto va detto che si profila un nuovo ruolo per chi gestisce gli spazi di vendita (anche se credo sia più corretto parlare di spazi di acquisto, data la centralità del cliente in questo processo). Un ruolo che nasce dall’esigenza di approfondire un argomento chiave per il marketing in generale: la psicologia dell’attenzione, dalla quale configurare diverse possibilità di stimolazione (in relazione alla densità, all’intensità e alla varietà).

Il concetto di base è relativamente semplice: a fare acquisti è un essere umano. Un essere fatto di carne, pelle, muscoli, nervi. Un essere che quindi può demotivarsi e affaticarsi nel realizzare acquisti. I manager che gestiscono spazi di acquisto devono quindi prendere coscienza del ruolo giocato dalla psicologia dell’attenzione, e di conseguenza pensare al cliente come il fruitore di uno spazio, nel quale una eccessiva densità informativa risulta essere dannosa e come tale controproducente. Partendo da questo presupposto, il tema delle varianze spaziali assume un aspetto centrale: non c’è bisogno di aumentare i metri quadri a disposizione, ma cambiare la loro disposizione, alternando zone che richiedono molta attenzione ad altre che possono essere concepite come “zone di recupero”, in modo tale da permettere al cliente di rigenerarsi e di vivere l’esperienza di acquisto come un momento non ansiogeno e stressante.

La consumer anxiety, del resto, è uno dei temi più importanti della consumer research in generale, e dimostra che i clienti che vivono l’acquisto come uno stress compiono atti d’acquisto irrazionali, persino a loro danno. Lo step successivo da compiere ci pone davanti a una domanda fondamentale: come creare spazi che rispettino maggiormente la persona e diano esperienze più positive? La risposta a questa domanda genera anche il know how necessario per indurre il cliente al ritorno (fidelizzazione) verso un luogo che gli ha lasciato un’esperienza positiva. I clienti sono anche e soprattutto cercatori di esperienze positive (positive sensation seekers) e non solo di prodotti: se l’esperienza è negativa, cercheranno lo stesso prodotto altrove.

È quindi necessario distinguere i concetti di customer satisfaction di prodotto (CSP) e customer satisfaction di canale (CSC) o channel satisfaction ((la soddisfazione verso il punto di acquisto).

La CSC include componenti relazionali e componenti logistiche, che sommate producono la qualità complessiva del servizio erogato dal canale distributivo: capacità di rapporto interpersonale, cortesia, tempi di risposta, servizio post-vendita e assistenza, facilità di accesso al luogo di distribuzione, facilità di acquisizione del prodotto/servizio, rispetto dei termini e delle condizioni di consegna. Ad oggi, i contributi delle neuroscienze indicano nel rispetto cognitivo, nel rispetto della fisiologia umana, un elemento basilare della channel satisfaction, sconsigliandoci vivamente di “spremere” le persone con ambienti unilaterali e saturi di densità informativa. Come procedere quindi?

Soprattutto attraverso azioni di perceptual engineering (ingegneria esperienziale), attività che uniscono un lavoro di tipo architettonico (diversa disposizione delle merci e delle illuminazioni, e  aree e zone di acquisto diversificate: spazi d’acquisto affiancate a zone di decompressione cognitiva, nelle quali è possibile inserire elementi naturalistici, zone verdi, zone di relax e meditazione, zone di consulenza d’acquisto e zone di problem solving d’acquisto), ad una nuova e diversa formazione del personale di contatto e dei manager sui principi del marketing percettivo.

Ad esempio, nel metodo HPM (Human Potential Model) viene utilizzata la “cartografia di Fisher”, una metodica oggi poco nota, nata negli anni ’70 per mappare gli stati mentali, la percezione, sino agli stati alterati di coscienza, e assolutamente utile per localizzare i tipi di attivazione mentale da rielaborare ed utilizzare su più fronti, compreso quello della psicologia dell’acquisto.