Anche le aziende devono sempre più porsi il problema di essere cittadine del mondo. Mandare personale all’estero, in particolare i dirigenti, è spesso considerato strategico, anche se negli ultimi anni la crisi ha rappresentato un freno.
Ora si prevede una ripresa delle trasferte, ed è importante capire quali sono i punti di forza di scelte di questo tipo, per la società e per il manager, quali i principali ostacoli, e anche quali le modalità più efficaci per gestire al meglio l’internazionalizzazione di dipendenti e dirigenti. Di tutto questo si è occupato lo studio “Up or out: next moves for the modern expatriate”, condotto dall’Economist Intelligence Unit con una survey fatta nel luglio scorso su 418 dirigenti di livello executive di aziende internazionali basate in 77 paesi.
Il 39% delle imprese prevede di incrementare il personale da mandare all’estero nei prossimi cinque anni, contro il 13% che lo ha fatto nell’ultimo biennio caratterizzato, appunto, dalla crisi. La globalizzazione «costringe le aziende a rivedere la propria strategia di localizzazione nonchè la gestione delle risorse umane e delle proprietà immobiliari», sottolinea Mark Dixon, Ceo di Regus, sponsor dello studio, che prosegue: «a livello mondiale, la necessità di manodopera mobile e flessibile mette in evidenza la sfida che si deve affrontare nel proporre un’infrastruttura lavorativa adeguata e a un costo ragionevole».
Il trend emergente vede l’Asia come principale destinazione, soprattutto la Cina, 35%, altri paesi del continente (esclusi India e Giappone), 32%, India, 16%. Quest’ultima è anche molto gettonata come paese di provenienza dei collaboratori da inviare all’estero, 21%, dietro solo all’Europa Occidentale, 60% e agli Usa, 56%. I cinesi, invece, espatriano solo nel 9% dei casi, così come i giapponesi. Europa e America si confermano a loro volta come mete di trasferte, rispettavemente 29% e 25%. Destinazioni ricorrenti sono anche il Medio Oriente, la Russia, l’Europa dell’Est. Sotto il 10% Giappone, Africa, Brasile e America Latina.
Nella maggioranza dei casi, 53%, l’incarico del dirigente dura da due a cinque anni, ma sono in aumento trasferte a breve termine (17% fra uno e due anni, 8% meno di un anno).
Nel passato un incarico internazionale veniva in genere affidato a un manager di lunga esperienza, oggi vengono scelte anche persone più giovani, soluzione fra l’altro meno costosa. Cresce però, in generale, l’importanza che il manager dà al consenso del consorte e alla possibilità di stare vicino ai figli. Fra i benefit che generalmente accompagnano questi incarichi, quelli preferiti dai manager sono l’alloggio, 71%, viaggi regolari a casa, 63%, rimborso spese, 61%, scuole per i figli, 59%, copertura sanitaria, 59%. Si tratta in genere dei benefit che le aziende riconoscono con maggior frequenza, con l’unica eccezione delle scuole, che le aziende pagano solo nel 39% (è la forbice maggiore fra i desiderata e lo stato delle cose).
Il 73% dei manager ritiene che la qualità più importante per lavorare fuori sede sia la “sensibilità culturale”, seguita dalle precedenti esperienze di soggiorni, lavorativi e non, all’estero, 39%, dall’abilità di leadership attraverso l’esempio, 38%, e dalla padronanza delle lingue straniere, 32%. Seguono la capacità di lavorare in gruppo, di operare in contesti difficili o emergenti.
I maggiori problemi che il manager si trova ad affrontare? In ufficio, le differenze culturali e di provenienza fra i membri dello staff, 50%, l’incapacità di capire la cultura locale, 47%, la diversità di regole, stili e comportamenti sul lavoro, 42%, non parlare la lingua locale, 33%, le differenze di stipendio con il management locale, 28%. Nei rapporti con il quartier generale, quest’ultimo spesso non tiene sufficientemente conto della specificità del mercato locale, 59%, ha difficoltà ad inserire il mercato locale in una strategia globale, 33%, o interferisce eccessivamente, 31%.