Più un manager scala i livelli massimi del vertice aziendale più cresce la tendenza ad attenuare il feedback sulla propria attività. Un problema serio che Robert S. Kaplan, docente di Practice Management presso la Harvard Business School, già vice-presidente di Goldman Sachs, ha potuto osservare direttamente grazie alla sua personale esperienza di direzione e in virtù del contatto con i top executive di diverse imprese.
Talento e competenza rappresentano la base perché un individuo possa arrivare a ricoprire incarichi di grande prestigio. Ma se si vuole proseguire il cammino verso l’alto servono anche persone che spingano un soggetto a migliorare se stesso mettendolo di fronte a critiche e facciano rilevare i limiti del suo agire.
Quando però nel corso della carriera si raggiungono le alte sfere, questo importante fattore di sollecitazione si perde perché da un lato la relazione lavorativa diventa principalmente con colleghi subordinati dall’altro i pochi superiori supervisori non hanno un contatto tale da consentire loro di controllare giorno dopo giorno il comportamento sul posto di lavoro.
Soprattutto i dipendenti per timore di scontentare il proprio capo non si azzardano a far sentire la loro voce con segnalazioni e contributi critici. Molto spesso è anche il dirigente ad avere atteggiamenti che scoraggiano questo tipo di attitudine facendo sorgere la convinzione che le critiche sono improvvide e non benvenute.
Di solito se si chiede ad un dirigente senior, peggio ad un amministratore delegato, di indicare il suo coach la risposta è una lista di “mentor” fuori dell’azienda o al limite qualche membro del consiglio d’amministrazione. Restiamo comunque sempre nel campo del “mentoring” versus coaching, dal momento che nessuno di loro esercita un monitoraggio diretto sull’operato quotidiano del dirigente. Nella maggior parte dei casi ai massimi vertici si tende ad evitare il confronto con i dipendenti poiché il modo di intendere la gerarchia aziendale lo esclude. Si pensa quasi sempre che l’input debba procedere esclusivamente dall’alto verso il basso e che accettando di sottoporsi al parere di chi occupa posti inferiori si possa determinare una violazione e una messa in discussione del ruolo direttivo. Ma i dipendenti, a vari livelli, afferma Kaplan, diventano più motivati a fornire un feedback verso i superiori quando si accorgono che ciò può avere una positiva influenza sulla condotta del senior stesso e sull’andamento dell’impresa.
Ammettere il “coaching” dei dipendenti costituisce un segno di forza non di debolezza. Usando specifiche tecniche per far emergere quanto viene dalla base lavorativa si riesce a costruire un clima di maggiore fiducia reciproca e ad ottenere un sistema di allarme preventivo ed efficace sulle deviazioni della performance. Il risultato è il miglioramento e la stabilizzazione della propria senior leadership.
Tuttavia, per avere progressi duraturi, oltre alla relazione con i dipendenti, diviene essenziale rafforzare i rapporti con i colleghi più giovani. Secondo Kaplan la maniera più efficace per ottenere feedback sulla prestazione sta nel radicare e coltivare una rete di junior coach o leader in azienda in grado di dire al senior le verità più scomode, cioè le cose che generalmente non si vogliono ascoltare.
In una realtà dove clienti e imprese evolvono continuamente e in fretta appare fondamentale avere voci e opinioni interne che possano indicare a CEO ed executive elementi utili per correzioni di linea tempestive e adeguate rispetto ai frequenti mutamenti del mercato.