Nel picco della crisi del 2008-2009 l’Italia aveva dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri paesi, guadagnandosi una “good reputation”, una buona reputazione internazionale. Ora, invece, siamo “fragili, isolati ed eterodiretti”. L’analisi è firmata dal Censis, che ha appena pubblicato il 45° rapporto sulla situazione sociale del paese 2011. E che descrive un paese che a livello economico vede un calo di produttività, servizi, occupazione, in quest’ultimo caso con i giovani particolarmente penalizzati. A livello sociale, fra le altre cose, si registrano un calo di fiducia nelle istituzioni e la riscoperta del valore della repsonsabilità collettiva davanti alla crisi.
Il Censis offre un’analiasi della crisi. La fragilità di questi ultimi tempo «viene dal non governo della finanza globalizzata» e «si esprime sul piano interno con un sentimento di stanchezza collettiva e di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico».
Siamo isolati «perché restiamo fuori dai grandi processi internazionali (rispetto all’Unione europea, alle alleanze occidentali, ai mutamenti in corso nel vicino Nord Africa, ai rampanti free rider dell’economia mondiale)».
E siamo eterodiretti «vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda». Qui il riferimento va probabilmente alle diverse lettere, da quella di quest’estate della Bce a quella autunnale della Commissione, che rispettivamente da Francoforte e da Bruxelles sono arrivate a Roma per “suggerire” misure anche molto specifiche da intraprendere per uscire dalla crisi.
Quelli che invece vengono definiti «i nostri antichi punti di forza», come «la capacità di adattamento e i processi spontanei di autoregolazione nel welfare, nei consumi, nelle strategie d’impresa», non riescono più a funzionare. Qui c’è una considerazione interessante, da molti punti di vista: «Viviamo esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci associamo ? ma da prigionieri ? alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini».
Dunque c’è un primato dell’economia finanziaria che è in realtà uno dei motivi della crisi. Per uscirne, bisogna tornare al «primato dell’economia reale», in un paese in cui imprenditorialità, anche di piccola e media dimensione, coesione sociale, forza economica e finanziaria delle famiglie, patrimonializzazione immobiliare, sistema bancario radicato sul territorio, welfare, sono fattori ancora essenziali per superare la crisi.
Vediamo un pò di cifre di questa crisi: fra il 2007 e il 2010 è calato il numero degli occupati di 980mila unità. Nel 2010 quasi un giovane su quattro fra i 15 e i 29 anni non studiava nè lavorava, un primato a livello europeo.
Nell’arco del decennio, invece, gli occupati sono aumentati del 7,5%, ma il pil è cresciuto in termini reali solo del 4%, contro il 9,7% della Germania e l’11,9% della Francia, paesi in cui gli incrementi occupazionali sono stati più bassi che da noi, rispettivamente del 3 e del 5,1%.
E’ sceso parecchio l’indice di produttività, che era a 117 ed è sceso nel 2010 a 101, contro il 133 della Francia, il 124 della Germania, il 108 della Spagna e il 107 del Regno Unito.
Fra le cause del ristagno economico, viene individuato il deficit di classi dirigenti. I vertici decisionali si sono ridotti di 100mila unità fra il 2007 e il 2010, passando da 553mila a 450mila, ovvero dal 2,4% al 2% degli occupati. Si tratta di una fascia sociale in cui prevalgono fortemente gli uomini, e in cui le donne, che sono un quinto del totale, tendono ulteriormente a diminuire. Gli under 45, che sono quasi il 60% degli occupati totali, rappresentano meno del 40%. La quota di laureati è del 36,4%. Dunque, riassumendo: poche donne, età media elevata, qualificazione formativa non eccellente sono elementi della debolezza delle classi dirigenti.