Per l’incidente avvenuto nel Golfo del Messico alla piattaforma semisommergibile di perforazione, Deepwater Horizon di Transocean, che 2 anni fa causò la morte di undici operai e un’immane fuoriuscita di petrolio (dai tre ai cinque milioni di barili), un flusso letale interrotto dopo ottantasei giorni di strenui tentativi, sull’azienda petrolifera britannica BP pendono diversi capi d’imputazioni e cifre record destinate al risarcimento dei danni.
Dal lutto arrecato ai familiari delle persone decedute nella sciagura, al mancato guadagno per le attività produttive nel settore della pesca, fino agli ingenti danni ambientali che una legge federale statunitense, definita come Clean water act, valuta in un pagamento intorno ai 1.100 dollari per ogni barile versato in mare, la somma, a carico della compagnia petrolifera, potrebbe addirittura quadruplicarsi in caso di “colpa grave”.
A determinare l’effettivo ammontare dell’indennizzo, potrebbe interporsi una seconda norma, l‘Oil pollution act, che impone l’addebito di bonifica e l’alterazione arrecata agli ecosistemi. British Petroleum ha già sborsato diversi miliardi per la pulizia delle acque, ma poco importa se al bilancio si aggiungono i danni chiesti dai circa 110mila residenti e commercianti delle zone interessate che non hanno siglato alcun accordo con la BP, avendo tempo fino al 20 aprile 2013 per presentare le loro istanze.
Il 5 marzo doveva aprirsi il dibattimento processuale in un tribunale di New Orleans, ma la controversia fra governo federale degli Stati Uniti e trust inglese, slitterà, probabilmente, di una settimana, per concedere un accordo extragiudiziale tra le parti. In altre parole, per quello che il presidente americano, Barack Obama, ha definito: “Il peggior disastro ambientale cui il Paese abbia mai dovuto far fronte…”, la nutrita schiera d’avvocati che curano gli interessi della società incriminata, esporrà i termini di un risarcimento record tra i 15 e i 30 miliardi di dollari che, precisano, non rappresenta un’ammissione di colpa, né tantomeno risolve “il braccio di ferro” con il maggior querelante: il governo americano.
Dunque, non soltanto le cifre, ma lo scontro fra le parti potrebbe caratterizzare il “processo del secolo”, palesandolo come lungo e complesso: tanto per cominciare sono previsti ben 11 interventi per gli avvocati di parte civile, il Dipartimento di Giustizia, i rappresentanti di difesa e accusa per gli Stati coinvolti.
BP sembra stretta da una morsa con due possibilità: mettere in conto un megarisarcimento senza pari nella storia dei disastri ambientali, oppure delegare l’intera questione a un giudice federale che prenda in considerazione le deposizioni invece di una giuria. Anche in questo caso, se il giudice decidesse per la “colpa grave”, sottoscrivendo in pieno le due norme sopraindicate, per la compagnia inglese si paventerebbe lo scenario devastante di un risarcimento oscillante tra i 52 e i 53 mld di dollari calcolati tra sanzioni e rimborsi.
Indicativo il commento di Eric Schaeffer, direttore dell’Environmental Integrity Project di Washington: “Quale che sia il risultato, il caso della marea nera passerà alla storia come il disastro ambientale più costoso di sempre, superando di molto quello causato dell’Exxon Valdez nel 1989, quando una petroliera dell’ExxonMobil s’incagliò nel golfo dell’Alaska disperdendo in mare petrolio per oltre quaranta milioni di litri”.