È una migrazione “di lusso”, ma è pur sempre un processo – auspichiamo, non irreversibile – che sta coinvolgendo una buona parte della classe manageriale italiana. Ci riferiamo alla crescente tendenza dei manager italiani ad andare a lavorare all’estero, con un ritmo di espansione di tale fenomeno davvero emblematico, che rischia di prestare il fianco a una duplice interpretazione di merito.
Iniziamo tuttavia dal dato statistico, inequivocabile: secondo quanto emerge da una indagine condotta da Amrop, primo gruppo indipendente del mondo in materia di executive search (cioè, di ricerca professionale di manager esecutivi), negli ultimi 5 anni sarebbero cresciute del 50% le posizioni ricoperte da italiani in imprese di altri Paesi. I manager nazionali impegnati attivamente nelle imprese straniere sono così saliti a quota 4 mila unità, di cui circa 3 su 4 all’interno delle nazioni dell’Europa Occidentale.
“La presenza di italiani fra i manager che lavorano al di fuori del proprio Paese resta limitata, intorno al 3% del totale” spiega Walter Gai, presidente di Amrop, spiegando che tale fenomeno è riconducibile al fatto che molte posizioni “sono riservate a persone della nazione che ospita la casa madre“.
Ad ogni modo, l’evoluzione del contesto sembra suggerire due diverse interpretazioni, con il rischio che si vada a propendere per la seconda, ora delineata. La prima è infatti riconducibile a un potenziale miglioramento della competitività dei manager italiani su scala internazionale. La seconda è invece attribuibile alla crescente crisi del comparto occupazionale italiano, che ha prodotto sicuri riflessi anche in merito all’evoluzione delle possibilità di lavoro nella Penisola da parte dei manager più capaci, che hanno potuto trovare adeguata soddisfazione nelle imprese estere dove possibilità di carriera sul breve termine, orizzonti di crescita e remunerazione fissa e variabile, erano e sono mediamente più allettanti dello scenario tricolore.
L’impressione è pertanto che il trend possa proseguire anche nel corso dei prossimi anni, riallineando l’esperienza italiana su più mature quote estere e, di contro, consolidando l’impressione che tra le tante conseguenze di questa lunga ondata di crisi, vi sia anche quella di una continua emorragia di vertici manageriali in rotta verso lidi stranieri.