Brain drain, così la chiamano i britannici, ovvero “l’abbandono di un paese a favore di un altro da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione, generalmente in seguito all’offerta di condizioni migliori di paga o di vita“.
In Italia, è chiamata la fuga dei cervelli, e conta per lo più uomini tra i 20 e i 40 anni, impegnati a migrare da Sud a Nord e dall’Italia all’estero in cerca di condizioni lavorative competitive; un trend ormai divenuto consuetudine e che non investe solo la fascia di ricercatori, che peraltro resta un ambiente ad alto rischio di declino.
Alla perdita di risorse umane si aggiunge un altro grande problema, la delocalizzazione delle aziende made in Italy. Mentre Ikea, contro corrente, decide di delocalizzare in Italia, spostando la produzione da Paesi asiatici come Thailandia e Malesia, parte del top delle aziende italiane vengono acquistate da colossi stranieri e finiscono per spostare la produzione laddove è possibile abbattere i costi. L’eco prodotta dal caso Fiat rappresenta l’emblema di una tendenza che rischia di diventare la normalità. Infatti sono numerosi i casi di stabilimenti chiusi e di produzioni del made in Italy fatte invece in Cina, Taiwan, Tunisia, India, e così via. Dainese ha spostato due stabilimenti in Tunisia, lasciando solo una piccola rappresentanza in Italia, Geox ha aperto stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam, lo stesso vale per Bialetti che produce in Cina, moltissimi sono invece i call center all’estero che hanno decimato il personale in Italia, Vodafone, Wind, Telecom Italia, presenti perlopiù nei paesi dell’Est.
E’ sempre più difficile per le aziende mantenere ottimi standard qualitativi con la crisi finanziaria che sta affliggendo il Paese ma non è impossibile contrastarla con l’aiuto delle istituzioni, dei sindacati e cittadini, ne è un esempio la mozione bipartisan sulla Invatec di Roccandelle (BS) – che opera nel campo delle tecnologie biomedicali – approvata qualche giorno fa. L’azienda, acquistata in passato da una multinazionale americana, che ha rischiato di vedere dimezzato il proprio personale in vista di un’apertura in Messico, ha per ora scongiurato il rischio.
L’inarrestabile trend della delocalizzazione ha contribuito alla perdita di 34 mila posti di lavoro e continua a impoverire il nostro Paese, partecipando alla crescita della disoccupazione – un giovane su tre è senza lavoro e, secondo i dati ISTAT il fenomeno cresce con una tendenza pari al 10,9% su base annua; è importante, pertanto, ristabilire il ruolo coperto dalle imprese nostrane nel panorama internazionale.