Licenziamento manager: pronuncia della Cassazione

di Alessandra Gualtieri

21 Giugno 2012 06:30

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La Cassazione si è pronunciata in merito alla disciplina che concerne il licenziamento del dirigente d'azienda, specificando vari punti chiave.
    Articolo gentilmente concesso da BLB Studio Legale

 

 

 

La Corte di Cassazione, con decisione del 10 aprile 2012, n. 5671, è tornata sul tema del licenziamento del dirigente di impresa, già oggetto di numerose precedenti pronunce, ribadendo il concetto di giustificatezza del recesso e sulla incomparabilità del medesimo con quelli che caratterizzano il giustificato motivo (oggettivo e soggettivo) e giusta causa di risoluzione datoriale del rapporto di lavoro.

Le ragioni che hanno portato la Suprema Corte a esprimersi sulla problematica devono attribuirsi sia alle oggettive difficoltà interpretative inerenti il sistema di tutele previste per queste figure nella fase risolutiva del rapporto di lavoro, sia alla peculiare disciplina applicata al licenziamento del dirigente, diversa rispetto a quella adottata per gli altri dipendenti a tempo indeterminato.

Infatti, a causa della diretta incidenza dell’opera del dirigente nell’attività d’impresa, l’elemento fiduciario, sempre presente in qualsiasi rapporto lavorativo, acquista in questo caso il carattere della centralità, della massima persistenza ed intensità, tale da originare una regolamentazione, per alcuni tratti, differente rispetto a quella ordinaria.

E’ nella natura particolarmente forte dell’elemento fiduciario, quindi, che si deve rintracciare la ratio della modifica della disciplina della risoluzione rapporto di lavoro rispetto ai normali canoni. Il dirigente è legato all’azienda in maniera completamente diversificata rispetto qualsiasi altro lavoratore, in quanto le scelte da questi effettuate incidono in maniera diretta sulla gestione dell’impresa.

Il dirigente, quindi, laddove il datore di lavoro gli attribuisca una discreta autonomia, ha la facoltà di adottare le decisioni che incidono in maniera evidente anche sulla strategia e sulla politica aziendale. In ragione di un potere così penetrante non può che essere giustificata la previsione di una disciplina del licenziamento diversa, ferma restando, tuttavia, la necessità della forma scritta dell’atto risolutivo del rapporto di lavoropena l’inefficacia del recesso.

Nella ipotesi di motivi inerenti la gestione dell’impresa, ovvero soggettivi non disciplinari, la lettera di licenziamento può non contenere la motivazione, la quale, però, qualora il dirigente lo richieda entro 15 giorni dalla comunicazione della risoluzione, deve essere indicata dall’impresa per iscritto entro i 7 giorni successivi. L’inosservanza di questa formalità vizia irrimediabilmente l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.

Nell’ipotesi, invece, del licenziamento “ad nutum” del dirigente, senza preavviso e con effetto immediato, la lettera di licenziamento deve necessariamente contenere la motivazione del provvedimento: l’omessa indicazione dei motivi inficia tutta la procedura con effetti di conseguente
invalidità della sanzione.

Inoltre, il datore di lavoro non può adottare il provvedimento del licenziamento disciplinare nei confronti del dirigente senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa nelle forme e nei termini cui all’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori.

Se per il lavoratore ordinario il licenziamento deve essere impugnato perentoriamente, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione, per i dirigenti detto termine non è applicato.

Il dirigente, iscritto all’organizzazione sindacale di categoria, ha facoltà di scegliere se promuovere la costituzione del collegio arbitrale oppure rivolgersi alternativamente alla A.G.: nel caso in cui però il dirigente abbia promosso la costituzione del collegio arbitrale, egli non ha più la possibilità di promuovere l’azione giudiziaria.

Il dirigente, a differenza dei dipendenti, non è destinatario della legislazione di garanzia prevista dal nostro ordinamento giuridico sui licenziamenti.

A tale carenza di tutela hanno ovviato i contratti collettivi nazionali del lavoro, introducendo nella disciplina del rapporto alcune norme contrattuali che limitano la libertà di recesso del datore di lavoro e riconoscono il diritto del dirigente ad ottenere il risarcimento del danno in caso di illegittimo allontanamento. La normativa prevista nei contratti collettivi per i dirigenti prevede, normalmente, due principali adempimenti: una particolare forma di comunicazione del licenziamento e l’obbligo di fornire una valida giustificazione al provvedimento di espulsione.

Il difetto di tali prescrizione origina in capo al dirigente il diritto al risarcimento del danno, difettando l’obbligo di reintegra per il datore di lavoro, salvo, naturalmente, l’eventualità di provvedimenti discriminatori. Il licenziamento, quindi, sebbene ingiustificato, rimane valido ed efficace, ma il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dirigente determinato un importo a titolo risarcitorio.

Rimane a carico del datore di lavoro l’onere della prova in ordine a veridicità, fondatezza e idoneità dei motivi addotti a giustificazione del recesso. Il licenziamento del dirigente deve avere il requisito della “giustificatezza” che la Sezione Lavoro della Cassazione in numerose occasioni (tra
cui la sentenza sopra richiamata) ha ritenuto di sviluppare, fornendo chiarimenti sulle sfumature interpretative presenti tra tale nozione e quella normativa di giustificato motivo del recesso di cui all’articolo 3 della legge 604/1966.

Inoltre, il licenziamento del dirigente può anche essere giustificato per motivi di carattere oggettivo e connessi alla prospettiva di sviluppo come il “miglior posizionamento dell’impresa sul mercato”, non prescindendo in ogni caso dal presupposto di incompatibilità tra la concreta posizione assegnata al dirigente e le strategie di sviluppo che datore intende adottare. Il criterio di giustificatezza di cui discorriamo, non riguarda, perciò, esclusivamente la perdita di fiducia da parte del datore nei confronti di quel determinato dirigente, ma anche il mancato ritorno di un’utilità “pratica” di quella posizione lavorativa, in funzione della compatibilità della medesima con strategie capaci di ampliare in modo efficace il mercato dell’azienda ed allo stesso tempo in grado di ridurre i costi della stessa.

Pertanto, a meno che non sia supportato da motivi palesemente pretestuosi, il recesso del dirigente dovrà ritenersi legittimo, stante l’insindacabilità della politica aziendale scelta dal datore di lavoro. Questo rafforzato potere dell’imprenditore può trovare una attenuazione nel contratto collettivo, nel quale validamente possono essere previsti limiti alla possibilità di licenziamento del dirigente nelle varie ipotesi di applicazione.

Tale articolo rappresenta un estratto. Per un approfondimento dell’argomento, scaricare il documento di BLB Studio Legale, presente nella sezione documenti di ManagerOnline.