In base a un sondaggio effettuato in tutto il mondo dal Reputation Istitute – società attiva nel settore dello studio e gestione della reputazione aziendale – è emerso che l’importanza del “buon nome” di un’azienda aumenta sempre più rispetto al prodotto che questa è in grado di mettere sul mercato. In altre parole: l’83% dei manager a livello mondiale concorda nell’affermare che siamo entrati in quella che si può definire “reputation economy“, nella quale non è più solo il prodotto o le sue caratteristiche ad influenzare le scelte dei consumatori: le vendite e il successo di un’azienda dipendono anche e soprattutto da come questa si presenta e come si comporta e quindi da come i consumatori le valutano in termini di reputazione.
Il dato più eclatante della ricerca, condotta intervistando 350 senior manager di diversi Paesi, è che se la maggior parte degli intervistati concorda nell’affermare che viviamo nella reputation economy, solo il 49% ritiene di essere preparato a sfruttarne le opportunità.
“Le grandi aziende competono ogni giorno per crescere al di fuori del loro paese d’origine” commenta Michele Tesoro-Tess, managing director di Reputation Institute Italy. “Secondo le nostre stime, più del 50% del fatturato delle aziende esaminate infatti è realizzato su scala internazionale, ma nonostante ciò queste all’estero fanno fatica a conquistare la fiducia e il supporto dei consumatori, dei clienti, dei regolatori e degli altri stakeholder”.
Da un altro studio di Reputation Institute, realizzato in 15 mercati intervistando più di 47.000 persone, emerge infatti che la gran parte delle 100 aziende prese in considerazione ottiene spesso un punteggio reputazionale più basso nei mercati esteri piuttosto che nel proprio paese di origine (sino al 21%). E che solo l’11% ha una reputazione più alta a livello internazionale che nazionale.
I motivi di questo “gap” per il 51% dei reputation manager intervistati risiede nella “mancanza di processi strutturati collegati alla reputazione”. Secondo il 37% “non si fa leva sulle conoscenze esistenti” e per il 35% “non c’è allineamento tra i reparti”. Il tema della reputazione è oggi ancor più strategico se si considera come la stessa genera benefici concreti sul business delle aziende.
Gli esperti del Reputation Institute hanno misurato che a miglioramenti di 5 punti di reputazione corrisponde un aumento della “raccomandabilità” dell’azienda del +7%. E la raccomandabilità che origina da una buona reputazione genera effetti tangibili quali: rendere i consumatori più disponibili ad acquistare un prodotto e a suggerirlo a terzi, facilitare i rapporti con le istituzioni e gli enti regolatori, aumentare il beneficio del dubbio e quindi la sospensione di giudizio nell’eventualità di periodi di crisi.
Gli studi fotografano quindi una situazione in cui le aziende incontrano difficoltà ad “esportare” la loro reputazione ed i benefici legati alla medesima. “Si pensi che la disponibilità dei consumatori a raccomandare un’azienda – spiega Tesoro-Tess – diminuisce oggi fino al 40% al di fuori del proprio mercato d’origine. E questo dato dà il senso dell’importanza e della complessità della sfida che le aziende debbono oggi affrontare per essere competitive nella reputation economy” .