L’abito fa ancora il monaco… pardon, il manager? A quel che sembra si, almeno per quel che riguarda dirigenti e top manager, che tra le parole chiave del loro successo personale non possono far mancare la voce “buongusto” nel momento in cui scelgono i propri vestiti, e talvolta anche il dress code più adatto per i propri collaboratori.
E se tra i motivi di sfiducia verso le capacità manageriali di Mark Zuckerberg, a detta del professor Sydney Finkelstein, c’è anche quell’incapacità nel liberarsi della felpa col cappuccio, forse qualcosa di vero in questo discorso un po’ retrò c’è davvero. A meno che non siate nell’elite dei Marchionne, degli Jobs o appunto degli Zuckerberg, attenersi a qualche semplice regola potrebbe essere ancora utile, pur essendo ormai sbarcati nel terzo millennio.
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L’autrice Cinzia Felicetti nel suo “L’abito fa il manager” raccontava come «La prima, indelebile impressione che abbiamo di una persona si forma in sette secondi». Meglio allora evitare, per lui, barba incolta, capelli non curati, piercing e tatuaggi, e per lei tutto ciò che potrebbe ricondurre a volgarità (come un eccesso di trucco) e aspetto trasandato. Attenzione al nodo della cravatta per lui, e a colore della camicia (meglio neutro) e lunghezza della gonna per lei (meglio non superare il ginocchio).
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Il riferimento al “classico”, insomma, sembra ancora essere, almeno in alcuni settori, l’arma migliore da sfoderare per non far sì che l’impressione di sé possa essere guastata a causa dell’abbigliamento scelto.