L’accertata dequalificazione di un dirigente impone l’obbligo di risarcimento da parte del datore di lavoro per il danno subito all’immagine professionale, tuttavia il rifiuto di svolgere altre mansioni può fa scattare il licenziamento per giusta causa.
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Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza 22625 del 3 settembre 2013, pronunciata in merito al demansionamento e al successivo licenziamento di un dirigente con qualifica di direttore generale: in seguito alla nomina del nuovo CdA è la rappresentanza legale concessa inizialmente a quest’ultimo è stata affidata al presidente, cambiamento che ha portato lo stesso dirigente a rifiutarsi di adempiere agli incarichi residui.
Un comportamento che ha determinato il licenziamento del dirigente per giusta causa, riconosciuto assolutamente legittimo da parte della Corte Suprema che ha ritenuto illegittimo il totale trasferimento di mansioni nelle mani del presidente:
«Il nuovo statuto, pertanto, non consentiva al presidente di intromettersi nella gestione della società così come, invece, era avvenuto, essendosi il Presidente attribuito il potere di firma su ogni atto esterno e quindi anche sugli atti di gestione, come quelli relativi ai rapporti con le banche, i fornitori, i consulenti, gli enti , interpretando il concetto di rappresentanza legale in modo così ampio da inglobare qualsiasi potere relativo ai rapporti esterni benché lo Statuto attribuisse al direttore competenze di rilevanza esterna sotto la sua esclusiva responsabilità. Ha osservato, altresì, che il presidente si inseriva anche materialmente nella gestione tenendo contatti diretti con i dipendenti, con i professionisti esterni, i consulenti, seppure non impedendoli al direttore, di cui però controllava ogni attività esterna al momento della firma sugli atti istruiti dal L:F.»
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