Il Tribunale di Milano ha condannato per violazione della privacy tre dirigenti di Google, colpevoli di non avere impedito la messa in rete su Youtube di un video con atti di bullismo nei confronti di un ragazzo down.
La reazione da parte dell’amministrazione americana non si è fatta attendere tanto che David Thorne, ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale, ha criticato il fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti generati dagli utenti ricada sui gestori di quei siti che mettono a disposizione la piattaforma di pubblicazione.
Una dura presa di posizione che si unisce a quelle di quanti, dopo la diffusione della notizia della condanna, hanno espresso perplessità nei confronti della decisione dei giudici milanesi.
«Il fatto che non sia capitato in nessuna altra parte al mondo – fa notare ad esempio Guido Scorza, presidente dell’Istituto per le politiche dell’Innovazione – non significa che non sarebbe dovuto accadere neppure in Italia ma è fuor di dubbio che esiste, come hanno puntualmente annotato gli osservatori internazionali, un caso Italia rispetto a queste tematiche».
I giudici del Tribunale di Milano hanno ritenuto che i trattamenti dei dati personali effettuati in relazione al servizio Google video su server collocati all?estero e sotto la responsabilità di Google Inc. e, dunque, di un soggetto di diritto straniero, ricadano nell?ambito di applicazione della disciplina italiana sulla privacy.
Nell’analisi di Scorza è da chiarire però in che modo la norma che regola le responsabilità sia applicabile al caso di specie, considerando la localizzazione delle infrastrutture informatiche di Google che conservano fisicamente i file video.
Inoltre, aggiunge ancora Scorza, «valutare la natura sensibile dei dati contenuti in un video che un utente invia a Google ai fini della pubblicazione, coinvolgendo eventualmente il Garante della privacy, è un’attività che richiede un’analisi evidentemente incompatibile con quella di qualsiasi gestore di piattaforma User generated content».
I dubbi, insomma, sono tanti e occorrerà attendere di conoscere le motivazioni della sentenza per poter capire quale sia stato il filo logico seguito dai giudici di Milano. Intanto anche Massimiliano Trovato, ricercatore dell?Istituto Bruno Leoni ed esperto della regolamentazione dei nuovi media, interpellato da una agenzia di stampa, si è mostrato scettico sulla decisione del tribunale meneghino.
Da parte sua, l’associazione Vividown, che aveva intentato la causa, fa sapere, pubblicando un comunicato sul proprio sito internet, che «il fine non era quello di censurare la libertà di espressione su internet, ma quello di ottenere una pronuncia che riconoscesse la tutela ai diritti fondamentali delle persone, tra i quali rientra il diritto alla privacy».