L’8 febbraio di un anno fa veniva pubblicato in gazzetta ufficiale il Dpcm che stabiliva le regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione, anche temporale, dei documenti informatici.
Da quel giorno, in Italia, sono state utilizzate 3 milioni di tessere elettroniche per la firma digitale (record europeo), mentre 100 milioni di documenti sono stati convertiti in file sottoscritti attraverso sistemi elettronici di validazione. Il tutto con pieno valore legale, senza spostamenti di persone, senza spedizioni di atti, e soprattutto senza archivi cartacei da conservare e gestire.
I certificatori accreditati dal Cnipa oggi sono ben 18. A loro è affidato il compito di emettere i dispositivi elettronici che abilitano alla firma digitale.
A livello normativo, l’Italia gode di uno strumento in più: quello offerto dal Codice dell’Amministrazione Digitale che ha determinato lo sviluppo di una forte cultura del documento informatico, favorendo un rapido abbandono della carta non solo nei rapporti tra cittadini e Pubblica Amministrazione, ma anche in quelli tra le imprese.
Il Made in Italy della firma digitale è stato addirittura riconosciuto dalla Commissione dell’UE come modello base a livello europeo. Infatti, un documento emesso da uno dei 18 certificatori accreditati dal Cnipa permette la completa circolarità in ambito comunitario, mentre non è così facile verificare la validità della firma se il documento in questione è stato emesso da altri Stati membri dell’Unione.
In termini economici, grazie alla firma digitale, ogni anno le aziende e le pubbliche amministrazioni italiane risparmiano circa 260 milioni di euro per gli spostamenti, per le code e per tutte quelle procedure cartacee che prima dovevano sostenere.