La Pubblica Amministrazione sostiene costi notevoli adottando software proprietario: da quello di dipendere da aziende private straniere per settori chiave quali Sanità e Giustizia, a quello di obbligare i cittadini all’uso di specifiche piattaforme, passando per i costi di mantenere sicurezza e affidabilità adeguate. Fra i vantaggi delle soluzioni open source, quelli più consistenti sono il risparmio di costi di licenza, la possibilità di suddividere le spese di sviluppo su migliaia di enti utilizzatori, i formati di dati aperti per un vero interscambio, la gestione remota dei backup e l’opportunità di avere una formazione continua condivisa.
Per questi motivi, come attesta la stessa Finanziaria 2007, l’attenzione si sposta sempre più sul software libero. Esistono Commissioni di lavoro ufficiali, per esempio al Ministero per le riforme e l’innovazione della PA, e un centro di competenza del CNIPA che si occupano di open source; si moltiplicano i casi di successo di migrazione; si ha una crescita di piccole imprese software locali.
In questo articolo ci concentreremo soprattutto su Ubuntu, un sistema operativo basato su GNU/Linux che sta incontrando particolare successo in molte Pubbliche Amministrazioni mondiali e che potrebbe essere interessante anche per quella italiana.
Ubuntu in Parlamento
Ubuntu è una parola africana che significa “umanità agli altri” oppure “io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti”, e chi lo distribuisce mira a diffondere questa filosofia. Non v’è costo di licenza, ma solo costi legati a servizi professionali e supporto tecnico.
Un primo successo di questa innovazione appartiene al mondo del volontariato e consiste nella messa a disposizione di macchine e formazione agli insegnanti della comunità AfricaSì. La mancanza di costi di lock-in e la possibilità concreta di stimolare comunità di sviluppatori, contrastando al contempo la pirateria, è infatti l’ideale per superare il digital divide strutturale.