Nell’orario lavorativo deve rientrare e quindi essere retribuito anche il tempo necessario per vestirsi, ovvero per indossare l’uniforme/divisa, qualora sia espressamente richiesta per svolgere l’attività lavorativa prevista. E non è tutto: se il tempo che occorre per indossare e togliere l’uniforme presso lo spogliatoio aziendale eccede le 40 ore settimanali, esso rappresenta uno straordinario che come tale va retribuito. Una situazione tipica di molte realtà lavorative, dalle professioni del settore sanitario, alle forze armate, compagnie aeree e così via.
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Ad analizzare il caso specifico delle professioni sanitarie è stato il Tribunale di Bari con la sentenza n. n. 1401/2017 con la quale ha condannato la Asl locale a versare 165mila euro di arretrati a 13 dipendenti, ai quali dal 1995 l’azienda non pagava il tempo speso per indossare la divisa obbligatoria. Tempo che è stato stimato di 20 minuti: 10 prima del turno di servizio e 10 il turno, intervalli ritenuti rispettivamente necessari per indossare la divisa di lavoro e per toglierla.
Va però precisato che, secondo i giudici, se il lavoratore può decidere autonomamente quando e dove indossare la divisa aziendale, tale periodo non deve essere retribuito.
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L’interpretazione del Tribunale di Bari conferma un orientamento consolidato della giurisprudenza, anche comunitaria, secondo il quale il cosiddetto “tempo di tuta” deve essere retribuito (si vedano ad esempio le sentenze della Corte di Cassazione nn. 19358/2010, 2837/2014 e 1352/2016).
Nella sentenza si legge infatti che:
“Rientrano nell’ambito del lavoro effettivo ex art. 6 RDL 692/23 anche i lavori preparatori e complementari che debbano eseguirsi al di fuori dell’orario normale delle aziende.
Costituiscono lavori preparatori e complementari rientranti nell’orario di servizio, quelli che siano strettamente necessari per predisporre il funzionamento degli impianti e dei mezzi di lavoro, per apprestare materie prime, per la pulizia, per l’ultimazione e lo sgombro dei prodotti ed in genere tutti gli altri servizi indispensabili ad assicurare la regolare ripresa e cessazione del lavoro nelle industrie a funzionamento non continuativo, limitatamente al personale addetto a tali lavori.
Ai sensi dell’art. 2 punto 1 della Direttiva 23 novembre 1993 n. 93/104 del Consiglio dell’Unione Europea rientra nell’orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.
Il legislatore nazionale ha recepito tale direttiva con il D.Lgs. 8 aprile 2003 n. 66, il quale all’art. 1 comma 2 lett. a) prevede omologa disposizione e all’art. 8 conferma che il tempo impiegato dal lavoratore per recarsi sul luogo di lavoro deve ritenersi escluso dal concetto di orario di lavoro”.
Per l’USPPI (Unione Sindacati Professionisti Pubblico Privato Impiego) si tratta di una “causa pilota” che potrebbe creare un precedente per molte altre categorie professionali, ma anche per aziende private che impongano l’obbligo di indossare un’uniforme sul lavoro. Il segretario nazionale USPPI, Nicola Brescia, e il segretario provinciale, Gianfranco Virgilio, spiegano:
Questo tempo non era mai stato retribuito dall’amministrazione sanitaria. Da questo momento molti altri dipendenti vedranno riconosciuto questo diritto comprensivo del risarcimento retroattivo per gli emolumenti non versati dall’azienda sanitaria, rispetto all’orario effettivamente realizzato.