Il lavoratore non pagato nell’ambito di un contratto di appalto si può rivalere sul committente, senza preventivo tentativo di escussione con il proprio datore di lavoro (appaltatore): è quanto prevede la legge sulla responsabilità solidale degli appalti dopo le modifiche del decreto 25/2017. Si tratta del provvedimento con cui il Governo ha abrogato le disposizioni altrimenti sottoposte a referendum il 28 maggio, su cui i Consulenti del Lavoro forniscono una serie di chiarimenti con parere 3/2017.
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Tecnicamente, si legge:
«è stato cancellato il beneficio della preventiva escussione dell’appaltatore, introdotto nel 2012» ed è stata «eliminata la facoltà per le parti sociali di modificare le regole della solidarietà passiva».
Il principio della responsabilità solidale non è cambiato: entrambe le parti, committente e appaltatore, sono tenute a pagare i crediti di lavoro maturati dal personale occupato nell’appalto, compresi i crediti dei lavoratori autonomi e i debiti nei confronti degli enti previdenziali e assicurativi.
Il riferimento legislativo è l’articolo 29 del dlgs 276/2003, in base al quale:
«il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonchè per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa».
Nella pratica, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore e con ciascuno degli eventuali subappaltatori:
«entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonchè i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento».
Fin qui tutto come prima. La novità è rappresentata dal fatto che, se i pagamenti non arrivano e il lavoratore va in giudizio, l’azione esecutiva nei confronti del committente non è più subordinata a un precedente tentativo nei confronti dell’appaltatore. La parte della norma che lo prevedeva è stata abolita dal decreto 25/2017: quindi, il committente è tenuto a pagare stipendio e contributi ai dipendenti dell’appaltatore, sul quale poi ha il diritto di agire per ottenere il rimborso.
In pratica, sintetizzano i consulenti del Lavoro:
«nella precedente normativa era maggiormente salvaguardata la posizione del committente», che «poteva essere chiamato in causa solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e dei subappaltatori».
Ora è più tutelato il lavoratore: se il debitore principale (il datore di lavoro, ovvero l’appaltatore o il subappaltatore) non paga, può ottenere il dovuto direttamente dal committente, senza attendere i tempi più lunghi del precedente iter di responsabilità solidale.
Ricordiamo la posizione critica dell’ANCE, associazione costruttori edili, il cui presidente, Gabriele Buia, secondo cui:
«l’abrogazione dell’obbligo di chiamare in causa tutte le imprese coinvolte nel vincolo di solidarietà lede il diritto delle imprese regolari e corrette di conoscere da subito l’avvio di eventuali azioni giudiziarie, a tutela anche dei lavoratori» e l’eliminazione della preventiva escussione del debitore principale «penalizza ulteriormente tutte le imprese della filiera produttiva e non direttamente il debitore principale, che in questo modo viene di fatto ulteriormente deresponsabilizzato».
Il decreto, in vigore dallo scorso 17 marzo, ha anche abrogato la parte della normativa che prevedeva la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere eccezioni alla regola sopra esposta, che diventa quindi l’unica applicabile in tutti i casi.