Torna a far discutere la spinosa questione che interessa il rapporto tra azienda e dipendenti: è giusto proibire l’accesso a siti estranei all’attività lavorativa?
A far riesplodere il caso è la notizia del licenziamento di 3 dipendenti del Neath Port Talbot Council, in Galles, accusati di passare anche 2 ore al giorno su eBay. La giustificazione fornita dai licenziati è stata emblematica: la colpa sarebbe dell’azienda, che li ha «indotti in tentazione» consentendogli l’accesso a internet.
La risposta dei dirigenti è stata ben più lapidaria: i dipendenti possono navigare liberamente su qualsiasi sito ma «non durante l’orario lavorativo». In soli 18 mesi, sono stati già 6 i lavoratori che hanno perso il posto a causa di un «inaccettabile livello di utilizzo di siti di shopping ed entertainment».
Dopo aver allontanato i dipendenti poco produttivi, il Consiglio ha deciso di bloccare l’accesso a siti non strettamente inerenti la sfera lavorativa. Nonostante questa possa sembrare la scelta più ovvia, non è la migliore soluzione al problema.
Diversi studi hanno infatti dimostrato che la libertà di navigazione in azienda ha lati negativi e positivi. Tra i primi spiccano la possibilità di contrarre virus e di diffondere informazioni riservate, mentre tra i secondi c’è sicuramente un ambiente lavorativo più creativo e la possibilità di attingere alle informazioni disperse nella Rete.