I lavoratori precoci rischiano di rimanere fuori dalla Riforma Pensioni: i sindacati chiedono un bonus contributivo che consenta a chi ha iniziato a lavorare prima dei 18 anni di ritirarsi prima, il Governo però su questo punto frena. La misura, ha spiegato il ministero del Lavoro Giuliano Poletti, «ha un livello di costo molto alto». Dunque, c’è un problema di coperture che rischia di far saltare le misure a favore di questi lavoratori.
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Come è noto, la richiesta dei sindacati è quella di un bonus di 4-6 mesi per ogni anno di lavoro precedente alla maggiore età, che consenta ai lavoratori precoci di andare in pensione anticipata.
C’è anche la proposta di fissare comunque un tetto, sempre per i lavoratori precoci, a 41 anni anni di contributi, oppure a 41 anni e 10 mesi.
In realtà, Poletti ha frenato senza chiudere del tutto la porta: come detto, si tratta di misure costose, quindi:
«occorre fare i conti, ed è quello che faremo».
I sindacati promettono battaglia, la Cgil:
«esprime preoccupazione per lo svuotamento di un intervento sul tema del lavoro precoce, anche smentendo diverse ipotesi che erano state prospettate nel corso degli incontri che si sono tenuti nelle settimane precedenti», e fa presente che il tema «costituisce una priorità, considerata l’urgenza d’individuare soluzioni per una categoria fortemente penalizzata dagli interventi di riforma».
I nodi verranno al pettine nel corso dell’incontro, che si preannuncia decisivo, del prossimo 21 settembre. Intorno al tavolo, riunito nella sede del Ministero del Lavoro, ci saranno il ministero Poletti, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Tommaso Nannicini, i leader dei tre sindacati confederali, Susanna Camusso (Cgil), Annamaria Furlan (Cisl), e Carmelo Barbagallo (Uil), che avverte:
«Tirino fuori i soldi e troveremo le soluzioni per i lavoratori precoci e per tutti gli altri. Senza soldi non si chiude».
Più ottimista Furlan:
«spero tanto che sia una giornata conclusiva di un grande lavoro che è stato fatto».
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L’impianto fondamentale della Riforma Pensioni, che sarà inserita in Legge di Stabilità 2017, è rappresentato dall’anticipo pensionistico APE per la flessibilità in uscita: il meccanismo prevede la possibilità di ritirarsi a 63 anni, quindi con 3 anni e sette mesi di anticipo rispetto all’attuale età pensionabile, dal 2017, prendendo un trattamento che rappresenta un anticipo sulla pensione, e verrà poi restituito a rate in 20 anni sull’assegno previdenziale. Il trattamento è erogato dall’INPS ma finanziato dalle banche, quindi per le casse dello stato il costo è zero. In realtà, ci sono categorie per le quali invece l’APE è finanziato dallo stato, ovvero i disoccupati di lunga durata. Infine, per le pensioni anticipate in seguito a crisi aziendale, costo a carico delle imprese. Secondo le stime che circolano, il costo totale (per lo stato) dell’APE, sarebbe intorno ai 600-700 milioni di euro.
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Le altre misure allo studio (su cui sembra esserci un accordo di massima con i sindacati): sulle pensioni minime, si pensa a un potenziamento della quattordicesima (o all’estensione della platea), e all’innalzamento della no tax area a quota 8.124 euro. C’è poi l’eliminazione delle ricongiunzione onerose. E bisogna vedere se nella Riforma entrerà anche il capitolo esodati, con l’ottava salvaguardia. Infine, appunto, il nodo dei lavoratori precoci.
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Il problema, come detto, sono le risorse: il governo per l’intero pacchetto pensioni prevede una spesa fra 1,8 e 2 miliardi di euro: sommando ai 600-700 milioni necessari per il cosiddetto APE social, altri 6-800 milioni per le quattordicesime, 250 milioni per la no tax area, e circa 100 milioni per le ricongiunzioni, rimane ben poco per i lavoratori precoci. Sarà di fatto questo il punto fondamentale su cui le parti dovranno trovare un accordo il prossimo 21 settembre.