Il fatto che l’amministratore delegato di un’azienda sia una donna non ha un effetto statisticamente rilevante sui profitti, ma se oltre al CEO appartiene all’altra metà del cielo anche la metà del consiglio di amministrazione, la redditività sale mediamente del 18%.
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Con buona pace di chi si interroga sull’efficacia di regole sulla presenza minima di donne nel board delle società quotate (vedi la recente normativa italiana, un terzo di donne nel 2015, leggi qui), i ricercatori dell’Università Bocconi dimostrano, empiricamente, che qualche volta invertendo l’ordine dei fattori (nel caso specifico, trasformando il sistema delle quote rosa in uno analogo, di quote azzurre!) il risultato cambia.
Battute a parte, il lavoro di Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore, dell’ateneo milanese, in collaborazione con Orsola Garofalo, Universitat Autonoma de Barcelona, dedicato a “Gender Interactions within the Family Firm“, l’interazione femminile nelle aziende familiari, dimostra la correlazione fra numero di donne in cda e migliori performance, in termini di Roa (return on asset, il rapporto fra il totale degli addet e l’utile lordo, dunque una misura di redditività ), nelle imprese in cui il grande capo è donna.
La ricerca è stata condotta in Italia, su un campione di 2mila400 aziende familiari ogni anno, per il periodo 2000-2010, con fatturato di almeno 50 milioni di euro.
Attenzione: l’effetto positivo che lo studio dimostra non è legato alla gender diversity, ovvero alla densità della presenza femminile in rapporto a quella maschile nel management, ma al numero di alte dirigenti quando ad essere donna è anche il Ceo (forse sarebbe il caso di iniziare a dire la Ceo). Come detto, in presenza di una donna ad, quando la quota rosa in cda è almeno al 50% la redditità sale del 18%, quando la presenza femminile non è maggioritaria, ma comunque rilevante (fra il 25esimo e il 75esimo percentile, dunque escludendo il 25% di aziende con il minor numero di donne in cda e il 25% con la presenza più folta), il ritorno positivo è del 12%.
Se invece il numero uno è uomo, il numero di donne nel board (alto o basso che sia) non ha nessun impatto rilevante.
Dunque, risulta fondamentale l’interazione fra le donne quando si trovano nelle posizioni di vertice.
I ricercatori formulano due ipotesi per spiegare il fenomeno: «primo, la presenza di consiglieri donne può far crescere l'autostima delle amministratrici delegate, in un ambito come quello della leadership aziendale, che è considerato tipicamente maschile. Secondo, la cultura aziendale più attenta alle specificità femminili che deriva da una maggiore presenza delle donne nel consiglio di amministrazione può incoraggiare la cooperazione e lo scambio di informazioni al più alto livello, migliorando così la qualità della consulenza fornita dal consiglio di amministrazione».
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Interessante notare come l’effetto positivo sopra descritto sia più evidente in questi tre casi:
- nelle piccole imprese (dove forse l’impronta anche personale del manager è più rilevante),
- in quelle localizzate in aree con idee più progressiste sul ruolo delle donne nella società ,
- nelle aziende in cui i consiglieri d'amministrazione donna non provengono dalla famiglia controllante (dove è più probabile che le nomine siano dovute al merito).