Se Confindustria boccia senza appello la proposta di riforma contratti definita dai sindacati (es.: applicazione per tutti, per legge, dei minimi salariali previsti dai CCNL), Confcommercio esprime critiche ma anche segnali di apertura:
«va apprezzato il fatto che si tratti di una proposta unitaria, cosi come l’intento, peraltro espressamente dichiarato, di evitare interventi legislativi su una materia che appartiene alle parti sociali».
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Si tratta di una presa di posizione rilevante, che riguarda il punto centrale della proposta dei sindacati confederali: il no deciso all’ipotesi di togliere alle parti sociali la possibilità di contrattazione sui salari minimi.
«L’intervento del Governo che per legge dovesse sottrarre alle parti la determinazione di aspetti fondamentali della contrattazione, è infatti un atto che va scongiurato perché, lungi dal determinare evoluzioni positive avrebbe quale principale risultato quello di uno svilimento del ruolo e della funzione dei corpi intermedi che, in una democrazia compiuta e moderna è, e deve rimanere, insostituibile».
Inoltre, così come le sigle sindacali, anche Confcommercio è contraria al salario minimo per legge, perché:
«presenta un elevato rischio di alterazione degli equilibri economici, sottraendo al contratto collettivo nazionale la competenza sulla retribuzione minima che si determina come risultato di un accordo complessivo e non come automatismo».
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L’associazione imprenditoriale non si esprime però sulla proposta dei sindacati alternativa all’ipotesi del salario minimo per legge, in base alla quale estendere (per legge) i minimi fissati dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Prende invece una posizione critica sul ruolo generale che Cgil, Cisl e Uil attribuiscono al contratto nazionale, rifiutando una troppo rigida diversificazione dei due livelli di contrattazione (nazionale e territoriale o aziendale). Nel sistema Confcommercio:
«il contratto nazionale non si limita a stabilire adeguamenti retributivi, ma contiene norme di flessibilità e produttività immediatamente agibili per le aziende, adeguabili all’evoluzione del quadro organizzativo, normativo ed economico», coniugando «esigenze organizzative e flessibilità per le imprese di tutte le dimensioni, con tutele collettive e un significativo welfare integrativo per i dipendenti».
E’ corretto consentire alle aziende, attraverso la contrattazione aziendale o territoriale:
«la possibilità di regolare direttamente con il sindacato specifiche esigenze rispetto all’organizzazione del lavoro». Ma, e qui sta il punto, non esiste «una sola strada, quella del decentramento tout court, per legare i salari alla flessibilità e alla produttività, la nostra pluriennale esperienza racconta una storia diversa».
Il sistema Confcommercio è in gran parte rappresentato da piccole e medie imprese:
«che non avrebbero giovamento da una spinta al decentramento forzato della contrattazione, anzi occorre seriamente riflettere sull’interesse delle singole imprese a non essere costrette a negoziare ogni norma a livello aziendale o ad applicare, oltre al CCNL, accordi territoriali quando il panorama in cui competere non è più quello che termina ai confini delle loro porte».
La proposta
«Un modello dove il contratto nazionale non determina un automatico incremento dei costi, ma può definire e ridefinire anche tutte quelle agibilità organizzative per migliaia di imprese che non possono o non vogliono negoziare singoli accordi, mentre parallelamente già oggi consente loro importanti modifiche a livello decentrato».
In pratica, par di capire, un contratto nazionale che contenga anche tutti gli elementi di flessibilità (ad esempio, i salari di produttività), che secondo la proposta dei sindacati invece si rimandano alla contrattazione decentrata, ma che non escluda la possibilità di stipulare accordi aziendali, anche in deroga a quanto previsto a livello nazionale.